Naricia probabile insediamento agricolo locridèo nel territorio di Prùnari.
Molto spesso, quando parliamo dei Greci dell’Italia meridionale, soprattutto parliamo dei loro miti, del loro pensiero religioso o filosofico, politico o militare, delle loro guerre intestine; poi discutiamo dal punto di vista archeologico, con i ritrovamenti nel corso del tempo delle loro città e di quanto essi ci hanno lasciato nelle stese città ritrovate o nelle campagne, attraverso anche affioramenti accidentali o scoperte casuali lungo le coste, come i Bronzi nel mare di Riace.
Di questo e di altro spesso parliamo, ma difficilmente cerchiamo di capire, andando oltre il bel vaso dipinto, la scultura e il pinakes, di quali fossero le loro fonti di approvvigionamento di materie prime come l’orzo, il grano o il frumento in generale, alimenti che erano alla base del loro regime nutrizionale. Non ci chiediamo dove essi potevano coltivare per il fabbisogno di città come Reggio, Locri o Caulonia, dato che lungo la costa, sulla stretta fascia di terra tra le colline e il mare, quel poco di spazio disponibile per coltivare, era insufficiente per le esigenze di tutti e con poca acqua.
Però, alcune di esse, come le ultime due, avevano sì un retroterra morfologicamente complicato, comunque, ricco di acqua e terra fertile da coltivare, soprattutto in alcune zone.
Se vicino le città e lungo la costa vi erano situazioni più o meno pianeggianti, con spezzoni di territorio coltivabile potenzialmente, non vi erano però, condizioni ottimali per l’approvvigionamento idrico del fabbisogno generale di quelle popolazioni. Per esempio, da alcuni dati comparativi, si pensa che Caulonia, una città non molto grande, nel suo momento migliore avesse circa diecimila abitanti; Locri, sicuramente molti di più. E se è vero che quest’ultima città avesse più di diecimila persone al suo interno, in un momento qualsiasi della sua storia arcaica, necessariamente avrebbe dovuto avere zone coltivabili da sfruttare, anche in montagna, nell’interno del suo stesso territorio. Le fondazioni di città come Medma(Rosarno) ed Hipponion (Vibo Valentia), sono proprio il risultato della ricerca di quello spazio vitale, con un attraversamento del territorio dorsale – appenninico, fin sulle sponde del Tirreno, visto che quello di un ampliamento lungo la costa, gli era precluso con il muro di Caulonia sul versante nord, e con Reggio su quello a sud. Per la città locrese, se il confine limitale del suo territorio, con il fiume la Sagra, era sull’attuale Allaro come io credo, tutto il territorio compreso tra il versante sud del fiume, a partire da Caulonia marina, lungo tutto il bacino imbrifero occidentale fino a Santa Maria del Bosco e poi seguendo la SS 110, fino al porto di Vibo Marina, doveva essere nella sfera locrese e hipponiate. Premessa necessaria, questa, per poter dire quanto segue: su quel versante e più di quello mammolese con gli altipiani della Melìa, l’altopiano dei Prunari(dove sorge Fabrizia), rispondeva ai quesiti necessari per la coltivazione produttiva con l’acqua necessaria ai campi arabili, e perché altipiano con un clima temperato. Quel punto così ottimale, era anche ad una distanza equivalente tra Locri e il luogo dei Prunari, passando per Monte Gremi( il monte più alto di quella fascia collinare, con altipiani e abbondante acqua), che in greco significa grembo, luogo della gestazione e coltivazione, e tra i Prunari e Hipponion, l’altra area coltivabile con i piani del Poro e del versante serrese. E’ una eresìa dire che i Greci locresi coltivassero la terra, per i loro bisogni alimentari, al centro della dorsale appenninica, in un’area distante dal mare? Credo di no, ma penso che non solo coltivassero quei luoghi e producessero orzo, frumento e quant’altro era possibile coltivare, ma che abbiano importato molte piante, come ad esempio: il castagno, il prunus nella versione del prugnolo e del ciliegio(la toponomastica da questo punto di vista ci dice molto, ma rimando ad altri scritti), ecc., dopo che li ebbero conosciuti in Oriente. Quindi: se sfruttarono il territorio dal punto di vista agricolo, necessariamente dovettero creare un agglomerato urbano, dove mandarono dei contadini o schiavi a lavorare quella terra, perché era fondamentale stare sul posto, per poterla coltivare. Ora, se questo avvenne realmente, significa che sul territorio di Prunari, sul versante occidentale del fiume Allaro, nell’area intorno a Fabrizia, ci devono essere i resti di questo insediamento agricolo locridèo. Che questa fosse una località coltivata, e dedita alla coltivazione del grano ce lo dicono gli stessi greci, con i loro culti e i loro riti, e lo potrebbe confermare Strabone, indirettamente, parlando del ratto di Persefone o Proserpina, ma anche, ancora indirettamente Ovidio, quando parla di Naricia come città della locride italica. Noi sappiamo che tra la prima e la seconda decade del Novecento, Paolo Orsi portò alla luce sulla collina al fianco del castello di Vibo Valentia, il tempio che gli hipponiati dedicarono a Demetra(dea del grano prima di tutto), la madre di Persefone/Proserpina(utilizzo anche il nome romano della dea, per indicare un culto presente sul territorio prima degli stessi greci, ma che spiegherò completamente in un prossimo scritto) e che in questo periodo stanno riportando alla luce dopo che lo stesso Orsi, lo aveva ricoperto nuovamente di terra. All’altra estremità di quel territorio, a Locri, la casa madre di quei greci, vi era uno dei più importanti santuari dell’Italia meridionale, questa volta dedicato alla figlia: Persefone. Divinità antiche legate alla terra, e assorbite nella simbologia olimpica della terra e della natura che si rigenera. Figlia di Zeus e Demetra, dea della fecondità, che dà il nutrimento come una madre, dice Platone, una seconda tradizione, invece la considera figlia di Zeus e Stige, il fiume infernale. Veniva indicata come la Kore, la ragazza, e ricopriva un ruolo importante nelle religioni misteriche e nei riti iniziatici di Eleusi, nei quali potrebbe rappresentare l’“iniziato” che passa attraverso la morte per rinascere, e gli inferi per salire al cielo.
Questo simbolismo religioso ci dice che era molto sentito il tema della produzione agricola specifica, e che la coltivazione del grano per ragioni alimentari era molto presente in quella comunità come problematica esistenziale, o almeno lo fu nella sua fase iniziale, fino a quando non divenne solo motivo religioso e di culto. L’altra ragione che mi spinge a ragionare in questi termini è sicuramente l’affermazione di Strabone quando dice che Proserpina nell’equivalente romano di Persefone, venne rapita da Ades(il dio privo di luce) in prossimità della città hipponiate.
Dall’inno a Demetra, sappiamo che la ragazza nella sua fase adolescenziale, era con le Oceanidi dall’ampio seno a raccogliere fiori: rose, croco, violette e narcisi, in un tenero prato …quando vide brillare di una luce meravigliosa un narciso con uno stelo dalle cento teste e al profumo di questa sfera di fiori, tutto il grande cielo dall’alto sorrise. Stupita la bambina distese per prendere il bel giuoco, ma la terra dei vasti cammini si aprì nella pianura nisia, e ne sorse con i suoi mortali il signore di tanti ospiti, il Cronide…
Ora, cos’è la prossimità in questo caso? Guardando le due parole: Persefone/Proserpina e prossimità, vediamo che i due o tre sostantivi d’origine indoeuropea, hanno entrambe la stessa radice “pr”, dal sanscrito pra, greco pro, latino pri/o, quindi, raggiungere (a) la purificazione (p), “stare innanzi”, “prima”, “davanti” a; 2) oppure “far giungere(r)a ciò ch’è puro(p)”, “riempire”. Riempire qualcosa che ti sta dinnanzi, ch’è davanti a te, non solo in senso materiale e fisico ma anche in senso spirituale, e metaforicamente con la presenza in genere. Per questo, se la scomposizione del sostantivo si divide i “per” con una radice “pr” del prefisso, in “se” con la radice “s” che ha il significato di serpente, e fone con il suffisso “fon”, e radice “fn” con valore di fonìa, voce, più la vocale tematica “e”, abbiamo che Persefone sta ad indicare la voce del serpente che riempie gli spazi del sottosuolo(infernali), davanti a noi; oppure, scomponendo il termine Proserpina, abbiamo che: “pr” come radice della prefazione “pro”, “srp” per radice di “serp”, serpente, e “na”, questa volta per acqua che scorre, abbiamo che negli spazi profondi che stanno davanti a noi, si muove tortuosamente conturbandosi il serpente di acqua: il fiume.
Termini indoeuropei, che scomposti secondo le radici, ci danno il significato di questo sostantivo in quella lingua, probabilmente con qualche valenza anche in paleoeuropeo, nella lingua della tradizione primaria delle civiltà europee. Ma il significato di Proserpina, in questo caso sarebbe, come appena detto: il serpente d’acqua che scorre, contortamente si muove davanti a noi. Nel nostro caso, in senso figurato sta ad indicare il fiume, che serpentinamente porta la sua acqua al mare: serpente d’acqua, quindi. Due elementi religiosi, delle divinità femminili, legate alla tradizione identitaria paleoeuropea.
Proserpina o Persefone che sia è una divinità ctonia della tradizione indoeuropea, ereditata da quella precedente; una divinità del sottosuolo(quando viene rapita dal dio degli Inferi, sprofonda in una cavità sotterranea, dalla quale grida aiuto, per questo, nella versione greca del nome, abbiamo –“fone”, fonia, al termine del sostantivo, il quale indica voce, grido), spesso associata al serpente, con rappresentazioni “rettiliche” dal basso ventre in poi, e uno dei simboli identitari(vedi le statuette cretesi, anche, con le donne con in mano dei serpenti, al posto di un neonato) della Grande Madre Terra, che per millenni hanno dominato la scena del continente europeo e oltre, comprese le nostre zone. A Delfi, prima della conquista di quel territorio da parte dei popoli patriarcali, e l’arrivo di Zeus, la divinità principale era rappresentata dal pitone, simbolo delle divinità sotterranee e della Grande Madre.
Proserpina come Demetra, due facce della stessa medaglia, sono la conclusione di quel processo evolutivo religioso che dall’astrazione di un concetto di divinità in funzione della rigenerazione della natura, chiude il suo ciclo con l’antropizzazione e la materializzazione anche visiva, in forma antropomorfica, di quella stessa idea primaria, come simbolo divino. In questo caso, Proserpina, che si muove in direzione del serpente, non è una rappresentazione plastica del movimento di un soggetto verso qualcosa, ma la rappresentazione metaforica nella quale gli autori e la cultura greca ci dicono, attraverso la leggenda e il mito, che quel territorio è sacro, perché nella loro tradizione era il luogo di un santuario dove quella divinità era scomparsa, in prossimità di un fiume sacro, perché le sue acque erano sacre agli dei. Ricordiamoci anche che nella seconda versione del racconto di Proserpina, quella di Apollodoro, era Stige (declinata al femminile) la madre della Kore infernale, e non Demetra; mentre altre volte è declinato al maschile e viene considerato uno dei fiumi infernali; in una delle versioni sarebbe il fiume le cui acque avrebbero reso parzialmente invulnerabile Achille.
Associazioni, accostamenti e declinazioni che rendono questo territorio sacro per tutti i popoli antichi, e non solo i greci. Vediamo adesso perché Proserpina finisce con un suffisso(na), ch’è la radice indoeuropea per indicare le acque cosmiche, le acque correnti, donatrici di vita e elemento vitale dell’universo. Così, “na”, nella radice indoeuropea, significa acqua, ma associando la “r”, “na+r”, abbiamo che “nar”, assume il significato di “acque in movimento”, “in direzione di”, ma ancora “nar”, significa uomo che giunge dalle acque (Nereo, il vecchio dio del mare, forse pelasgico, il quale è vissuto prima di Posidone, per la mitologia greca, era padre delle ninfe nereidi e viveva nel mare, tra gli abissi dell’oceano; non solo, come abbiamo visto sopra, anche fiore profumato con narciso. Nar, dunque, nella tradizione indoeuropea, con le sue declinazioni dialettali del sanscrito, greco e latino, na+r nar è il luogo delle acque (na) in movimento (r). Ma Prunari e Nardodipace, i due paesi dello stesso territorio, hanno quella radice al netto del prefisso pro (per Prunari) e del sostantivo – pace, per Nardo (di questo parlerò altrove). Quest’ultima, però, rispetto a –nari ha in più la d, ch’è il simbolo della luce e della divinità: “cielo”, “giorno” e “luminosità” vengono indicate nell’indoeuropeo con “div”, mentre “di”, senza la “v”, ha il significato di “brillare” e “splendere”; in sanscrito invece, “divya” divino, e “deva” è “dio”; il latino, però, ha “divinus”. Nar, quindi, il luogo delle acque(mi sembra che in questi luoghi ce ne siano abbastanza) nella tradizione della lingua comune: l’indoeuropea. Adesso, Se noi abbiniamo alla lettura del sostantivo Proserpina, a quello di Nar o –nari, abbiamo che: l’acqua si muove serpentinamente (in maniera tortuosa) dinnanzi, davanti a un soggetto o pluralità di soggetti, i quali osservano quel serpente di acqua(il fiume) come fosse un rituale.
Il fiume, dunque, l’elemento sacro nella sua duplice veste: la tortuosità dei suoi meandri serpentini (-serp), simbolo della Grande Madre paleoeuropea, e rappresentazione dell’energia vitale, e l’acqua (-na), sacra perché fonte di vita, anch’essa legata alla fertilità della donna (Demetra/ Cerere-Proserpina /Persefone), nel suo processo di rigenerazione della natura. Siamo partiti dall’esigenza delle popolazioni greche lungo la costa ionica di oggi, di procacciarsi gli alimenti necessari per le loro collettività, utilizzando territori fertili con abbondanza di acqua, all’interno della dorsale appenninica, e abbiamo capito che le tracce presenti sul territorio sono di una combinazione di elementi di carattere religioso e agroalimentare, che ci fanno pensare che nel circondario di Prunari, vicino all’attuale Fabrizia, sorgesse un insediamento greco, presumibilmente derivato, a carattere agricolo.
Ragionando su alcuni aspetti di carattere agropastorale e religioso, e tenendo conto della toponomastica locale, scomponendola (a sua volta), e evidenziandola nelle radici dei termini indoeuropei, ho cercato il significato di quelle stesse radici, comparandole tra le tre lingue su menzionate (su dizionari in italiano), per capirne il significato. Quello che n’è venuto fuori è che in quel contesto, se quelle terre furono coltivate dai greci della locride, perché loro territorio, e sfuttate a fine agroalimentare e pastorale, dev’esserci stato un insediamento agricolo, che ha avuto anche risvolti religiosi per i suoi tratti indigeni antichi. Perciò, se la toponomastica fornisce queste radici, che nel linguaggio della cultura indoeuropea significano quelle cose, non solo, ma a ciò si aggiunge quanto rimasto nel sostrato della tradizione degli antenati dei greci, cioè della civiltà paleoeuropea, soccombente nella fase preemicenea , forse tra l’inizio e la metà del secondo millennio, potrebbe dire che quel territorio sarebbe il luogo dell’antica Naricia di cui parla Ovidio nelle sue “Metamorfosi”.
Il simbolismo di questo sostantivo è evidente ch’è simile, anzi, nella seconda parte di esso, scomponendolo, vediamo che rafforza il concetto di acqua: Nar- e –icia. Come abbiamo visto, secondo la valenza indoeuropea egli è: Na+r, che significa acqua (na) che scorre(r), con moto circolare continuo(i+ci), fino a compimento(a). L’acqua che le scorre continuamente a fianco da ambo i lati fino al fiume “serpente”. A chi scorre continuamente l’acqua a fianco? La mia supposizione è che nel piano di Prunari, a quell’ipotetico insediamento agricolo voluto dai greci della locride, scorresse quell’acqua da ambo i lati che poi si riversavano nel fiume principale(Sagra?), e che loro sapessero, attraverso gli indigeni (oramai indoeuropei anche loro, ma non quanto loro) di quel culto antico sulla rigenerazione della natura, che poi hanno ripreso con il culto di Demetra/Persefone, fondando la Naricia di cui parla Ovidio. I romani continuarono con Cerere/Proserpina, e i Cristiani con la Madonna delle Grazie, culto primario tra il 1700 cento e 1800 cento a Fabrizia.
Scritto da: Vincenzo Nadile