Colgo l’occasione che la Rivista Santa Maria mi offre per ringraziare l’affetto che il pubblico serrese e dei paesi circostanti ha tributato alla mia ultima fatica letteraria il 3 gennaio, presso la sala della Chiesa Matrice di Serra San Bruno. E’ stata una serata svoltasi all’insegna del calore umano che solo la gente meridionale sa profondere senza risparmio e che mi ha davvero commossa. Credo che sia piaciuto sia l’argomento sia il modo di porgerlo.
Sicuramente l’organizzazione dell’incontro è stata superiore alle mie pur rosee aspettative. Un ruolo fondamentale è stato svolto dalla redazione della Rivista Santa Maria, nella persona dell’avv. Domenico Calvetta, che mi ha introdotta al pubblico, e della redattrice Angela Bruna Tassone, che ha fatto da moderatrice, e pure da parte dei proff. Onda e Luciani, che hanno brillantemente relazionato sulla mia opera con un approccio originale e significativo, toccando argomenti diversi e interessanti che mi hanno arricchita.
La chitarra di Niccolò Zaffino, la lettura di una cantica sul brigantaggio composta dal dr. Bruno Tassone e recitata con passione dalla dott. Michela Tassone così come il reading della liceale Francesca Mannella hanno creato quell’atmosfera di forte empatia che difficilmente potrò dimenticare. Una nota di simpatia per la “poetessa in erba” Altea Scarfone che ha letto la sua lirica sul Natale. Gli interventi del pubblico sono stati spontanei nella loro quantità e qualità, a testimonianza che di un interesse reale e sincero.
Per ringraziare i convenuti e informare i numerosi e attenti lettori della Rivista Santa Maria, sono pronta a svolgere quello che ritengo un coronamento alla memorabile serata. Riporto così, in forma compiuta, il mio intervento in sala, pensando di far cosa gradita.
“Quando ho deciso di scrivere “Angela la Malandrina”? In verità il personaggio era chiuso nello scrigno del mio cuore da molti anni e urgeva di svelarsi, ma si sa che non è facile tradurre in parole un palpito di vita inconscia che chiede di non esser dimenticata e fa di tutto per non morire dentro di noi. Scrivere è per me dare vita a queste emozioni profonde che bussano alla porta del mio animo e Angela è stata – come altri personaggi femminili a cui ho dato voce – una delle storie più forti e crude che io abbia mai elaborato. Angela si è impossessata del tutto di me al punto da creare un “meraviglioso stordimento e un viaggio all’indietro alla ricerca del personaggio”, attraverso uno scavo interiore sofferto e autentico.
Chi è Angela? Una contadina calabrese della seconda metà dell’800 che cerca la liberazione da un ambiente familiare triste e retrivo in cui vige la legge del padre-padrone. Dall’orrida bicocca in cui vive, la sedicenne, che nel presentarsi volutamente tace il suo cognome, decide di fuggire per intraprendere una strada verso l’ignoto e che la porterà lontano, oltre i limiti del suo immaginario, verso quella che lei crede essere la strada per la sua libertà: il brigantaggio.
Ne consegue un’avventura umana prim’ancora che epica, in cui è preponderante il tema del riscatto degli umili in generale e in particolare della donna, da sempre eterna esclusa dalla storia, oltreché incompresa e condannata prim’ancora di agire, com’era tipico in quei tempi, e non solo al Sud.
I toni che ho usato sono ora flebili e teneri, specie quando si parla di paesaggio, sentimento, amore, solidarietà… ora tesi e marcati quando irrompe la storia al punto che l’opera si risolve in un vero e proprio “atto d’accusa” contro la politica del tempo, condotto lucidamente su due fronti:
– quello dell’azione materiale, attraverso la scelta di Angela, assolutamente priva di coercizioni, di imbracciare un fucile e seminare terrore per i boschi della Sila e del Pollino, cioè di darsi alla macchia per reagire a un sistema di potere calato dall’alto, per lei come per tantissimi altri che parteciparono al movimento del brigantaggio politico nell’estremo lembo della penisola, dopo lo Sbarco dei Mille e l’Unificazione d’Italia;
– quello del sentimento e della riflessione profonda che porta Angela a interrogarsi continuamente sul suo “hic et nunc”, sul suo stato in essere, sulla sua situazione, chiedendosi: Chi sono io? Cosa faccio? Dove mi trovo? Dove andrò? …riuscendo a mettere in discussione persino la sua scelta autonoma.
E’ un personaggio in continuo divenire, in fieri: prototipo della ribelle, che rifiuta la staticità di una condizione imposta e decidere di imprimere una svolta consapevole della quale dovrà accettare i rischi, le paure, i dubbi.
L’opera, volutamente densa e concentrata, si risolve in una sorta di “J’accuse” in cui si intersecano continuamente due piani: quello esterno ad Angela e quello interno, relativo al suo animo fiero e irriducibile.
Il primo monito è la critica alla storia e ai suoi personaggi consacrati, figure intoccabili che nei tomi appaiono come eroi della nazione italiana, i facitori del nuovo ordine raggiunto dopo le sanguinose lotte risorgimentali.
Il secondo piano è quello dell’auto-critica che sposta l’attenzione alla vicenda umana e intima di una donna atipica, una battagliera, una pasionaria che pretende di avere il suo ruolo nella storia e che farà di tutto per diventare tristemente famosa, andando contro la sua vera natura (così si legge nell’ incipit). E’ questa duplicità fusa in un’essenza a rendere avvincente il personaggio.
Ho dedicato l’opera, ancora una volta, ai giovani perché apprendano quanto non è riportato sui libri scolastici e giudichino senza remore e veti, attraverso una riflessione critica che pone sul banco degli imputati l’astratta formula dell’ Historia magistra vitae est e degli eroi ufficiali. La mia critica più feroce alla formula, citata a volte distrattamente, l’ho esplicitata così: “La storia è maestra di errori e scelleratezze, portatrice di nefandezze, dispensatrice di pregiudizi” oppure: “Le reticenze le appartengono e pure le falsità”.
Sono affermazioni lapidarie, quasi oracolari che sfatano un dogma e che costituiscono l’asserto da cui sono partita, delineando un ritratto femminile trasgressivo e controcorrente, nella maniera in cui a me piace, come nella galleria di donne di “Rosaria, detta Priscilla, e le altre – Storie di violenza e femminicidio”.
Ho svolto il racconto in prima persona, è un modo per avvalorare l’identità del personaggio e la sua consapevolezza dell’agire, una piena assunzione delle proprie responsabilità, parafrasando lo stile della tragedia classica e i famosi monologhi delle eroine, alla stregua di Antigone, Fedra, Medea … sospese tra il bene e il male.
Ma Angela, la Malandrina è soprattutto un libro sul brigantaggio meridionale dell’epoca postunitaria.
La prima volta che ho sentito parlare dei briganti fu a sette anni, per bocca di mio nonno, che idolatrava il famoso brigante Musolino. Da allora, mi interessai ai loro cupi racconti mescolati alla leggenda, soprattutto attraverso la tv, il cinema, la letteratura. Mi colpì molto la storia del Vizzarro che il compianto scrittore-giornalista Sharo Gambino portò alla ribalta con un’opera teatrale da cui fu tratto un radio-dramma, divenuto famoso perché interpretato da Ugo Pagliai. Nell’81, quand’ero bambina, a istruirmi più di un libro di storia, fu lo sceneggiato televisivo “L’eredità della priora”, tratto dall’omonimo romanzo storico di Carlo Alianello, e così crescendo mi appassionai alle struggenti ballate di Eugenio Bennato, moderno cantore di un’epica popolare i cui echi erano sparsi per le contrade del Sud.
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Crebbe pian piano in me, parallelamente alla riscoperta storica del fenomeno del brigantaggio post-unitario, il desiderio di dare in futuro un mio contributo. Mi stupii del fatto che di quest’ “epopea dei dimenticati e dei reietti della Storia” facessero parte pure le donne, oltraggiate due volte: perché fuorilegge e perché, appunto, donne. D’altro canto a scuola non avevo mai letto qualcosa di veramente interessante sui briganti, che non fosse la sbrigativa vulgata storiografica arcinota, fortunatamente ormai rivista e corretta.
Come frettoloso era pure lo schema mentale di chi, distratto conquistatore o viaggiatore mitteleuropeo alle prese con la terra del Sud, non aveva alcuna predisposizione a comprendere una cultura differente, anzi la denigrava e la congedava come primitiva e selvaggia condizione dello spirito, come deficit di progresso, come manifestazione negativa di una storia di sottosviluppo.
Dopo la spedizione dei Mille e l’Unità d’Italia, il Sud fu sconvolto da scontri tra l’esercito regio italiano e gli insurrezionalisti, per lo più braccianti disperati e militari dell’esercito borbonico. I briganti vennero sostenuti dal governo borbonico in esilio, appoggiato dalla Spagna. Si agitò una vera e propria guerra civile in cui non si evitarono stermini di massa, decimazione, rappresaglie, finché il brigantaggio non venne represso.
Immaginiamo come le plebi meridionali dovevano apparire ai soldati del nuovo re, sbrigativi come tutti i militari, assolutamente indisponibili a comprendere le ragioni di chi andavano fucilando. L’incomprensione e la chiusura verso quegli uomini definiti “cafoni” e verso quelli classificati come “briganti” è il punto di partenza per ogni rifiuto. Ancora più netto, se si tratta di donne.
Con questo racconto, epico ed appassionante, fuori dal tempo e dagli schemi, colgo l’occasione di ricordare un segmento di storia dimenticato o taciuto che vale la pena di richiamare alla ribalta, soprattutto per i giovani: i miei figli in primis, quindi i miei allievi liceali.
Nei libri in cui io studiai, la retorica dell’ufficialità presentava i vari Cavour, Vittorio Emanuele e Garibaldi come mostri sacri, eroi patri intoccabili che abbattono squallidi avversari dai nomi sbiaditi, cioè i briganti: indecorosi avversari su cui trionfare, al servizio del re borbonico pavido e insignificante.
Per tanto, troppo tempo, si è poi alimentata sulla Calabria una leggenda nefasta, specie da parte di una certa scienza positivista che ne ha restituita un’immagine rozza e sanguinaria, contrassegnata dalla superstizione e da una maledizione misteriosa che spingeva al crimine, al misfatto, all’inciviltà. Essa era il territorio selvaggio per antonomasia, abitato da gente primitiva e feroce, un punto nero sulla carta geografica che per molti viaggiatori rappresentava un confine da non attraversare su cui era inciso: “Hic sunt leones”. Terra barbara di briganti, “eroi di coltello” (malandrini), gente di malaffare e selvaggi abbruttiti dalla miseria. Quasi impossibile sfatare questo mito, i cui residui talora permangono.
E’ ormai risaputo che i briganti furono anche appassionati patrioti, assetati di indipendenza, intolleranti dello straniero che calpestava con arroganza il loro suolo, come il generale Reyner, mandato da Giuseppe Bonaparte a domare la Calabria. Essi vanno sottratti all’anonimato e riconsegnati alla storia, anche se furono perdenti battuti due volte: dalla ragione delle armi e dalle ragioni della politica. La loro sconfitta è uno degli antefatti dell’umiliante Questione meridionale e riguarda direttamente tutti noi abitanti del Sud, che abbiamo il dovere di ricordare e di far conoscere alle nuove generazioni le proprie radici. In veste di formatrice culturale, ho sentito il dovere di farlo attraverso la mia indole narrativa.
La storiografia risorgimentale ha presentato i briganti dalla parte del male, sminuiti e offesi come criminali. La letteratura dell’epoca e i melodrammi fecero poco per riabilitarli, raramente li hanno offerti nella loro interezza, con le loro pulsioni, i loro sogni, le loro ragioni. Solo la tradizione favolistica orale, così come i canti, tutti di matrice popolare, ne ha dato un’immagine fresca, sincera, veritiera. La cinematografia li ha esaltati in maniera ora languida e patetica ora efferata e sanguinaria.
Un libro che mi ha insegnato molto, svestito com’è di ogni retorica, è stato “Il brigante” di Giuseppe Berto, che invito tutti a leggere.
I briganti dai nomi vituperati, dai volti straziati dalla lotta e dalle fucilate, ci raccontano una storia diversa e ci suggeriscono nobiltà e coraggio. Essi esigono rispetto da noi.
Ormai molto si è scritto per recuperare il senso del brigantaggio postunitario e successivo ed io non posso aggiungere niente di nuovo a quanto risaputo.
Come autrice del Sud, intendo offrire la mia divagazione letteraria sul fenomeno, usando toni ora flebili e teneri, ora più sentiti e marcati per un vero e proprio “atto di accusa”. Per farlo, ho scelto la voce di chi sento più vicina a me: quella di una donna, da sempre l’eterna esclusa dalla storia.”
Per suggellare questo mio intervento, propongo un estratto del libro – letto durante la serata – e, in fundo, la lirica d’apertura. Buona lettura.
L’avventura.
Passai un anno così e manco me ne accorgevo, ché il filo della mia vita era teso e io ci camminavo come un’acrobata. Mi sentivo leggera nella mia bolla di sapone, nessun presentimento del domani, di ciò che ero e che stavo facendo. Le farfalle in testa c’avevo!
Il mio battesimo col fuoco avvenne durante una discesa verso un paese, dove dovevamo ritirare provviste e cambi di biancheria.
Lungo la rotabile, ci agguantò una scorta di gendarmi. Forse qualcuno dei villani fece la spia, perché li pagavano bene e fingevano di esserci alleati. Ci inseguirono sparando ad altezza-uomo, infilandosi nella macchia. Fu un vero e proprio scontro a fuoco.
Mi accorsi di non avere paura, comunque un fucile ce l’avevo pure io e potevo usarlo. Ero capace di uccidere, come un masculo. Lo feci senza pensarci. O lui o me.
Lui era giovanissimo, quanto me. Lo capii dopo averlo steso a terra, col suo volto bianco e senza rughe, con gli occhi spalancati sulla brigantessa che lo stava a guardare, atterrita e sopraffatta da qualcosa di inimmaginabile e più grande di lei. Madonnuzza mia bella, chi fici?
Era crepato subito, e menomale! Un rivolo di sangue si allargava dal cuore, che doveva esser forte e fiero. Presi a correre fin dove ero capace, insieme agli altri che mi vantarono per il coraggio, pure col capo. Non ero contenta per niente. Lì per lì, pensai che era stata solo fortuna.
E ne ebbi tanta di fortuna, nei mesi che seguirono, cruenti e intensi. A volte la sfidai, ché io ormai della morte me ne fricavo tutta.
Crescevo a pane e sangue, contenta di ammazzare i miei nemici, senza sapere manco chi erano. Non era bello ucciderli, era necessario. Morto sei tu, viva resto io: questa era la mia legge. Non so se stavo dalla parte del bene e se loro, i nemici, erano il male.
La lotta è caos, fa smarrire il senso della vita, rimescola i ruoli, cancella ogni valore, annulla la coscienza e l’umanità.
E la guerra mi fece sua. Cominciavo a credere d’essere nata per uccidere. Forse ero paccia netta a lasciarmi trascinare così dal presente, dimenticando ogni ritegno e ciò che mi era stato insegnato. Cancellavo giorno dopo giorno ciò che ero stata e sulle montagne della Sila fino al Massiccio del Pollino combattevo la mia guerra, mettendo in gioco me stessa e il mio destino.
Cominciarono a chiamarmi Malandrina. Prima i compagni, per distinguermi dalle altre, che creparono d’invidia. E Malandrina diventò il mio nome di battaglia.
Piano piano pure i montanari, i massari, i cafoni m’arriconoscevano. Alla soglia dei vent’anni, col diavolo in corpo, avevo finito un apprendistato che non m’aveva sfiancato per niente e che m’aveva lasciato tre o quattro cicatrici sulla pelle di latte.
Avevo fatto le mie conquiste, m’ero guadagnato il soprannome. Avevo sepolto Angela, le sue paure, i pochi ricordi di un’altra vita. Avevo tanto cammino da fare, e sempre a testa alta lo percorrevo, pure se non sapevo dove arrivavo.
Il capo mi scelse e m’assegnò una banda e un territorio, grande era la montagna e grandi le minacce. Ora dovevo prenderle io le decisioni. Prima era, meglio era e poi si sapeva che noi briganti non c’avevamo vita lunga, con tutte le guarnigioni di Piemuntisi alle calcagna. Il Sud era una polveriera e io dovevo fare la parte mia, per i giorni che mi restavano da vivere.
Non c’avevo tempo da perdere. Iniziai a terrorizzare i boschi, le vallate e i borghi con scorribande, agguati, sabotaggi, ruberie. Usai anche gli inganni femminili, i travestimenti, le spiate e mi feci beffa dei soldati. Tutto feci per ammazzarne il più possibile.
Mi gettai nell’avventura più rischiosa con l’anima e il corpo. Ero ‘na diavula scatenata, mi sentivo immortale. Volava alta la mia fama, sempre mi precedeva: era nata la leggenda della Malandrina assatanata che infuriava come una tempesta, faceva perdere la testa al suo nemico prima di sferrare il colpo mortale, poi scompariva nelle selve sul suo bianco destriero.
Una guerriera saracena sembravo, coi capelli al vento e la camicia sbottonata. Mi pareva di fare la Storia, e me ne gloriavo, in faccia a tutti.
La mia vita progrediva con l’esperienza, accresciuta dall’audacia. Oltre alla forza, che mi veniva da lunghi addestramenti coi masculi, affinavo i cinque sensi pure per la lotta alla sopravvivenza.
Nei momenti cupi ero cruda e risoluta, non ridevo, non facevo all’amore, parlavo poco perché c’avevo altro per la testa: la guerra.
Gli anni eroici trascorrevano veloci che quasi non me ne raccapezzavo. Intorno a me, la realtà cambiava repentina, ma io continuavo la missione.
Dall’animo furioso l’eccitazione per le vittorie si librava con sontuose ali di fuoco. Il fremito della ferocia metteva in tutti i cuori uno spavento enorme, all’apparire della mia banda che insanguinò per anni la grande montagna del Sud. La violenza fu la mia legge in una terra senza frontiere.
Poi, inevitabilmente, iniziai pure io a pensare, a farmi domande sul mondo, sulla Storia, su di me.
Il sangue è passato
Il sangue è passato ancora
su una terra bella e amara.
La morte s’è fatta destino,
lo sfregio e l’abominio,
son diventati storia
da imparare a memoria.
La lama ha trapassato il padre
sotto le lacrime dei figli,
dei parenti, delle mogli.
Nasce l’Italia con rabbia e rancore,
con cittadini privati dell’onore.
Verranno poi terre lontane e bastimenti
per scordare insulti e tradimenti,
umiliazioni, lacrime e tormenti,
ferite aperte sotto l’acqua e il sole.
Un grido senza voce attraversa le città,
un pensiero senza nome vola nella notte …
Gente senza pace troverà in queste parole
tutta la verità che non vuol dire
e il canto per la dignità e il coraggio
di chi lottò fino alla morte:
uomini e donne, e furon tanti!
Essi hanno un nome, quello di briganti.
Ultimo premio vinto dal libro “Angela, la Malandrina, Storia di brigantaggio e libertà”
Dopo essersi aggiudicata la Vittoria assoluta al Premio Letterario “Araldo di Gasperina (CZ) ” 2015, l’opera è risultata Prima dei Racconti al Premio Letterario Felix – Festival Virtuale della Campania, SA 2016.
L’autrice, nel momento di presentare la sua ultima fatica al pubblico di Serra San Bruno, non sapeva ancora della bella notizia, giunta proprio due giorni dopo la memorabile serata. La vittoria le è valsa la menzione letteraria di “Donna del Sud” , per aver trattato con originalità e assoluta freschezza espressiva la tematica dell’emarginazione e del riscatto. Un lungo estratto dell’opera sarà pubblicato in un’apposita antologia, edita dagli organizzatori del Premio salernitano. Una bella soddisfazione per l’apprezzamento fuori regione, già palesato in novembre, a due mesi dall’uscita del libro, al Premio “Il Murgo Gioiosano” 2015, svoltosi a Gioiosa Marea,( ME) dove la scrittrice ha presentato l’opera e ha preso parte alla competizione letteraria in veste di Giurata di Qualità.
La redazione della Rivista Santa Maria formula il più sincero degli auguri all’autrice.