Anche gli Angeli hanno un’anima (Sail Delliams)
Quando sono libero dal mio ufficio mi piace vagabondare. Oggi ho scelto una panchina di un grande rione cittadino dove vado di rado. Ho piegato ben bene la grande scatola di cartone, che è la mia finta cuccia e, dopo averla infilata sotto il sedile -con molta cura per non sciupare le ali che nascondo all’interno- con il portatile sulle ginocchia comincio a scrivere le mie storie metropolitane. Dentro la città che brulica mi sento come fossi al centro di una grande giostra. Di tanto in tanto vado nel vicino bar per prendere quanto mi occorre e affido al barista, la batteria di riserva per la ricarica. I ragazzi che servono al bar mi chiamano “Lomorandagio”. Ogni tanto, sospendo la scrittura e seguo sullo schermo i fatti del mondo, poi osservo per qualche minuto l’umanità che mi circonda. Fu verso le undici che ebbe inizio una strana e inquietante storia. Stavo facendo una pausa per riflettere; tenevo le dita incerte sula tastiera e lo sguardo perso in lontananza quando mi attirò un’auto rossa che si stava fermando a ridosso del marciapiede; al di la della strada principale. L’uomo alla guida scese e attraversò la strada e mi passò vicino. I nostri sguardi si incrociarono e lui, incuriosito, si è avvicinato alla mia postazione e si è piazzato alle spalle. Ha certamente scrutato la mia nuca, e i capelli che la ornano a formare un’aureola ben ordinata e bianchissima. Si è poi concentrato sullo schermo del mio computer chinandosi leggermente per leggere la pagina che principiava con il titolo del mio libro: “Antologia di Angeli, Spiriti e Misteri”. Bisbigliando ha continuato a leggere, in modo sfacciato, tutta la pagina. Non nascondo che quella sfrontata intrusione mi ha dato fastidio; ma non ho avuto l’ardire di redarguirlo. Infine sedette al mio fianco e, con tono amichevole; sicuro e autoritario, mi disse: -Sei uno che scrive: uno scrittore metropolitano, bene, oggi sono in vena di fare buone azioni e voglio regalarti una storia che puoi scrivere. La storia che ti racconto è del genere che fa per te; visto che ti piacciono i misteri, e ti dico che nella mia storia sono compresi anche gli spiriti. Mi chiamo Josè Cesar Felipe de Moreira, nato nel quartiere Morumbi dell’ Ilha Solteira; e questa è una città del Brasile nello stato di San Paulo. Ilha Solteira è sempre stata una città di cultura e io, discepolo di Màrio de Andrade, oggi sono qui per rappresentare la cultura brasiliana. Da studente, per mantenermi agli studi, lavoravo alla costruzione della diga d’Itaipú; questa è una diga sul percorso del fiume Paranà. La diga si doveva costruire per la produzione di elettricità e per il controllo delle piene e anche per consentire la navigazione delle barche. Io facevo parte della squadra della costruzione del bacino. I terreni necessari per la costruzione di quella diga erano di una vecchia signora che non voleva venderli. Tuttavia abbiamo dovuto allagarli e la signora è stata costretta ad andarsene da questa sua proprietà. Quella vecchia dopo pochi mesi che se ne era andata morì, e dissero che questo accadde per colpa dell’esproprio. Qualcuno ci scherzò sopra però, dopo il suo funerale, cominciarono ad accadere cose impressionanti. Ad uno ad uno i componenti della mia squadra morirono; ognuno per un fatto tragico differente, e si disse che era per la maledizione della vecchia signora morta per l’esproprio. Io, dopo aver completato gli studi, mi sono dedicato agli scambi culturali fra le nazioni; ed è per questo che mi trovo qui. Mi domanderai dove è la cosa misteriosa in questo che ti dico, ecco, io sono l’unico sopravvissuto a quella che tutti chiamano la “maledizione della vecchia strega” e la cosa buffa è che io non ho mai creduto in tutto quello che la gente dice e in tutto quello che la stampa scrive sul fatto di questa maledizione. Ecco, ora sai e puoi raccontare questa storia a modo tuo, e se hai qualche dubbio, e se vuoi altre cose di particolare; chiamami. Ti lascio questo biglietto, qui c’è l’indirizzo, il numero di telefono e c’è anche altro di me. Dopo aver detto questo Josè si alzò e poggiò il biglietto sul posto dove stava seduto e si avviò verso la sua auto. Mentre si allontanava presi il biglietto e stavo per leggerlo quando uno schianto e un grido mi fecero sussultare. Una macchina a velocità sostenuta aveva urtato un pedone. In breve, intorno al luogo dell’incidente scoppiò il caos. Con il computer sottobraccio mi portai sul luogo della disgrazia; un corpo giaceva esanime al centro della strada, era stato coperto con un plaid e da sotto fuoruscivano rivoli di sangue. Istintivamente osservai la macchina di Josè: nessuno era seduto al volante e pensai che l’avrebbero rimossa appena riconosciuto il proprietario. Incrociai lo sguardo con un soccorritore che sostava vicino alla vittima, lui intuì la mia muta domanda, scosse la testa e disse: è morto, è morto sul colpo. Ebbi un brivido e il mio pensiero volò alla maledizione della diga, ecco: la strega aveva colpito l’ultimo bersaglio. Si udiva la sirena dell’ambulanza che sopraggiungeva e non ebbi il coraggio di vedere il seguito e sbalordito tornai alla panchina. Non scrissi di questa storia; come Josè mi aveva suggerito e, nel ricordare quella scena avvertivo un brivido orrendo. Mi dissi che dovevo dimenticare quell’episodio e per mesi evitai di tornare su quella panchina. Sentivo persino un senso di colpa per quanto era successo. Riflettevo sulla fatalità di quell’evento, mi dicevo che forse avrei potuto scongiurare quella tragedia, mi arrovellavo nel pensare che sarebbe bastato trattenere Josè pochi secondi con una scusa qualsiasi, magari facendogli una semplice domanda: Josè dove si trova il quartiere Morumbi? scusa Josè, chi è questo Mario de Andrade? Stavo esagerando; in fondo cosa potevo rimproverarmi? è stato il fato, il destino, la sorte e così via. Io non dovevo continuare a crearmi inutili sensi di colpa, non era nell’ordine delle cose. Così rappacificato, a distanza di un anno esatto, come spinto da una forza estranea, tornai su quella stessa panchina, mi sistemai come al solito e, appena seduto, diressi lo sguardo verso la parte opposta della strada. Ebbi un senso di stupore, oltre la strada, accostata al marciapiede, c’era la macchina rossa di Josè. Non vi erano dubbi, era proprio l’auto di Josè. Possibile, mi chiesi, che dopo un anno non era stata ancora rimossa? Stavo per alzarmi per andare a verificare da vicino quando una mano si posò sulla mia spalla. Mi volsi e vidi Josè, era proprio lui: Josè…e sorrideva tranquillo. Restai sbalordito e, prima di esternare la mia meraviglia, Josè sbottò con il suo solito tono amichevole e nello stesso tempo imperioso: Ciao scrittore, e così che si rispettano gli amici? L’anno passato mi venne l’idea di andare al bar per comprarti qualche cosa da bere ma, quando tornai non c’eri più. Ora vorrei rifare la stessa cosa ma non ho tempo, devo correre all’ambasciata per firmare dei documenti. Sai che ho cambiato casa? Non abito più nel quartiere Morumbi mi sono trasferito nel quartiere Catarina e ho cambiato pure il numero di telefono, ecco, ti lascio il mio nuovo biglietto, se hai bisogno di qualche cosa chiamami. A questo punto ebbi un brutto presentimento avrei dovuto trattenere Josè. Tentai: -Grazie Josè, sei molto gentile ma, dimmi una cosa, chi è Mario de Andrade? -Non conosci Andrade? Allora ti ho sopravvalutato, bene amico! Dimentica tutto quello che ti ho detto e lascia stare quel computer, la scrittura non è il tuo mestiere. Prima di scrivere bisogna leggere, leggere e leggere tanto. Addio Così si espresse Josè e in tutta fretta, senza aspettare risposta si avviò verso la sua auto. Rimasi interdetto e confuso mentre un senso di timore mi spingeva, mi spingeva ad agire, dovevo fare qualche cosa… subito… subito…prima che avvenisse. Dovevo fermarlo. Dovevo fermarlo, dovevo fermarlo bastavano pochi secondi per scansare il destino, pochi secondi per salvarlo. Gridai più forte: Josè… Joseééééééé..Non si fermò, anzi si mise a correre. Raccattai il biglietto che aveva lasciato sulla panchina e stavo per leggerlo quando uno schianto e un grido mi fecero sussultare. Una macchina a velocità sostenuta aveva urtato un pedone. In breve, intorno al luogo dell’incidente scoppiò il caos. Poggiai il computer sulla panchina e mi portai sul luogo della disgrazia; un corpo giaceva esanime al centro della strada. Istintivamente osservai la macchina di Josè: nessuno era seduto al volante. Incrociai lo sguardo con un soccorritore che sostava vicino alla vittima, lui intuì la mia muta domanda, scosse la testa e disse: è morto… è morto sul colpo.
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