Diario poetico e scioccante del giovane aspirante prete andreolese.
“ Ma, insomma, il sesso cos’è? Frutto proibito, offesa a Dio, colpa, vergogna? Desiderio inestinguibile, eros, passione, perdizione, donazione del proprio corpo, procreazione? Sogno e fantasia o violenza e trasgressione? Il sesso deve essere sublimato o vissuto anche nelle manifestazioni ritenute più basse? Dona felicità o crea angoscia? Cosa ha da fare con inferno e paradiso? Perché la Chiesa Cattolica, come tutte le religioni, cerca sempre di reprimerlo?” Il problema del sesso, inteso come problema centrale della società e del costume calabrese, e nello specifico, della gente del versante ionico catanzarese negli anni ’50, ci dice quale interesse morale il nostro Autore riserbi alla sua fatica letteraria, lo stesso che Corrado Alvaro dedicò al romanzo Mastrangelina, dove il tutto viene racchiuso in poche parole: “che cosa è un uomo, e un meridionale, di fronte alla donna.” Insomma questo è ciò che si chiede ed indaga Salvatore Mongiardo in Sesso e Paradiso (Ed. Iride, Soveria Mannelli) di qualche anno fa, perché perseguitato da quel “sesso senza figli [che] portava diritto all’inferno. Era la dottrina di Sant’Alfonso che aveva fatto impazzire moltissime donne e aveva rovinato intere famiglie”. Quanta esagerazione, avrà pensato il Mongiardo! L’opera si presenta come un’autobiografia critica snocciolata attraverso una serie di racconti che rivelano i momenti della formazione e della maturazione di un giovane seminarista fino a quando non viene invitato dal suo vescovo a “lasciare l’abito ecclesiastico perché non ero adatto al sacerdozio e dovevo farlo subito, se non volevo che mi mandassero i carabinieri”. Amaro epilogo ma liberatorio. È una sorta di diario di vita vissuta in un crescendo di esperienze ed emozioni accanto a personaggi, creduloni o smaliziati, dalla vita subalterna o meno, cresciuti in un particolare ambiente socio-culturale della Calabria e di Sant’Andrea Ionio e dintorni in particolare. Qui la mentalità censoria della classe dominante ed un assai diffuso moralismo hanno fatto sì che nel mondo contadino la dimensione erotica fosse tutta nella clandestinità, per cui dello “scabroso” argomento ci si esprimeva con proverbi, detti, massime e indovinelli circolati con estrema difficoltà essendo adatti solo a persone adulte e, quasi sempre, completamente proibiti alle donne. E però “la repressione del sesso ha reso questa terra invivibile, cattiva” Qui ilo scrittore di Sant’Andrea Jonio scorre la pellicola della sua fanciullezza e giovinezza attorno a paesaggi e persone vicine anche ai miei anni giovanili come il Mons. Bruno Pelaia poi vescovo di Tricarico e il seminarista Antonio Catroppa entrambi di Serra San Bruno e l’ andreolese don Vincenzo Samà per tanti anni amato arciprete della chiesa Matrice sempre a Serra ed il vallelonghese on. Vito Giuseppe Galati, nonché l’arcivescovo Armando Fares e il suo segretario don Alfredo De Girolamo, quello spilungone non proprio uno stinco di santo. Un ambiente in cui il Mongiardo trascorre gli anni giovanili e vive un’esperienza che resta vivissima in lui come fonte di ispirazione, un’esperienza fatta di “tensioni, paure, angosce, dubbi di avere peccato, di non aver scacciato tutte le fantasie” che lo fanno invocare, con i versetti del Miserere di David: “ Per pietà, Signore,aspergimi con ramo di issopo e acqua lustrale e sarò più bianco della neve, ti prego Dio mio.” Entrando nel cuore del libro, ci si trova dentro un diario poetico e scioccante del giovane aspirante prete, che snocciola, senza ricorrere a filtri o strategie letterarie, gli insopportabili dolori psichici che gli procurano i sommovimenti della sessualità che, invece di essere compresa come fatto naturale, viene castigata e minacciata di peccato mortale nel seno familiare e tra le mura austere di un seminario. Incompatibile con la formazione sacerdotale di un giovane. Grave peccato che non si tenta, neppure, di modificarlo con la comprensione che è dovuta proprio agli anni dell’età evolutiva, ma è relegato a vergogna, a disprezzo, ad isolamento. Ma il sesso è davvero peccato per il cattolico? Scrive Valter Gualandri, psicologo, che “ la sessualità costituisce, nel suo pieno e libero esercizio, un mezzo e nello stesso tempo un elemento imprescindibile di completezza della personalità umana, soprattutto in quanto la sessualità è relazione e comunicazione, cioè sostanzialmente superamento dell’individualità.” Ecco serviti! E poi è vero o no che da che mondo è mondo “tira cchiù ‘na suttana ca ‘na corda ‘i campana” e da questa sottile potenza, da Eva in poi, deriva un po’ la grandezza o meno dell’ opera dell’uomo? E i grandi santi della Storia e i tanti eremiti e monaci delle spelonche hanno certamente sempre voluto evitare le “tentazioni della carne”; tanti altri santi in gioventù han goduto di tutto e di più come Sant’Agostino, spesso citato dal Mongiardo, e Francesco d’Assisi, definito recentemente da Benedetto XVI un “playboy”, e lo stesso amatissimo Papa Giovanni Paolo II, eppure a questi non è stato negato né l’aureola né il Paradiso. Ma forse è più opportuno che si parli di “Chiesa legale” e di “Chiesa reale”. Già, perché quella “reale” del buon Dio che sa quel che passa nella testa dei suoi figli non ha mai negato loro la sua misericordia. Invece la Chiesa “legale”, quella istituzionalizzata, per fortuna quella dei secoli passati, quella controriformista e ancor prima quella medievale alla maniera boccaccesca o comunque quella primitiva al Concilio Vaticano II, era legata a tabù di sicuro ma anche a principi di predominio e sottomissione di una certa classe subalterna che avrebbe potuto dare fastidio. Al postutto si può dire che il problema è come lo si vive il sesso. L’importante è che non si esprima con violenza, con lo stupro e con volgarità pornografica. È questo che di sicuro farà male a Dio, all’uomo e alla società laica e religiosa. Il sesso vissuto come bisogno e funzione biologica, e soprattutto con amore, fa bene e di sicuro condurrà in Paradiso. E non mi sembra esagerato concludere con le parole di Salvatore Mongiardo: “il sesso è il crogiuolo che trasforma l’uomo in Dio, è la porta dell’immortalità.” Unica nota stonata, c’è da dirlo, è quella che nel libro si riferisce ad una “tre giorni” di soggiorno tra le sacre mura della Certosa di Serra; il Mongiardo ne descrive un’atmosfera quasi truce e da manicomio, per cui “mille volte meglio finire squagliato dall’atomica piuttosto che stare chiuso tra quei matti”. Mi pare che lo scrittore andreolese, in questa breve parentesi di tutto un itinerario avvincente e degno di riflessione, sia ingiusto, poco benevolo o forse la troppa acrimonia verso il mondo sacerdotale secolare lo ha distratto dall’essenza della clausura. Comunque sia, questa opaca pagina non inficia un lavoro compiuto con passione e meticolosità letteraria, un lavoro che offre al lettore tanti, tantissimi spunti di attenzione e riflessione.