Ho davanti una vecchia fotografia. Risale sicuramente alla fine degli anni quaranta. Sono ritratti sette baldi giovani vestiti in maschera che fanno parte della “mira societas CUCARACHA appellata”. Tutti hanno pretese artistiche letterarie e quando si riuniscono in casa di uno di loro, dopo aver bevuto un bicchiere di vino,si improvvisano cantanti lirici o componenti un coro alpino sotto la guida di Alberto sottouffiale di finanza in servizio nel Trentino. Dopodichè affrontano argomenti culturali.
Due di loro,effettivamente, si sono poi affermati nel campo artistico e letterario: Giuseppe Maria Pisani: valente scultore e pittore e Sharo Gambino noto scrittore calabrese
Nella foto questi giovani sono vestiti in maschera con abiti di fine ottocento scoperti in una cassapanca in casa di Giuseppe Maria, di ottima fattura e ancora ben conservati.
Quella sera di martedì grasso ognuno di noi scelse il vestito che più si confaceva al personaggio che in cuor suo idealizzava: Pierino indossava un elegante frac e in testa un cappello a cilindro; Mario vestito da Napoleone; Franco da paggio; Sharo da Rigoletto e io da mandarino cinese. E poi vi erano Lino con un ricco abito di “ pacchiana “ e Giuseppe Maria avvolto in un meraviglioso abito da donna di fine ottocento con cappello a larga falde.
Dato un po’ di trucco sul volto ( baffi e pizzetto con il carboncino per gli uomini , cipria e rossetto per le donne)scendemmo in strada per farci ammirare nell’eleganza dei nostri vestiti che effettivamente suscitavano l’ammirazione dei presenti, quindi percorremmo il Corso Umberto e dopo un breve struscio andammo nelle case degli amici per fare un breve visita, scambiare due parole e gustare qualche dolcetto oppure nelle case dove abitava la ragazza dei nostri sogni di cui qualcuno della compagnia ne era segretamente innamorato. Felice di poter incrociare lo sguardo della persona amata e pago dei complimenti che aveva ricevuto per la maschera scelta.
Finito il giro ci addentrammo, poi, nelle strade secondarie. Durante il tragitto incrociavamo altre persone in maschera,giovani indossanti un lenzuolo o una gonna dismessa, un cappello calato sugli occhi,un grosso bastone e il volto completamente tinto di nerofumo. Passavamo d’avanti a qualche cantina e se sapevamo che lì il vino era buono entravamo per berne un bicchiere,che poi veniva offerto da qualche avventore, tra i tanti, che ci conosceva .
Già. le cantine! Erano i pub o le pizzerie di oggi. Frequentate da giovani e da uomini che per una intera settimana o quindici giorni erano rimasti lontani dal paese a lavorare sulle montagne: mannesi,carbonai,boscaioli e al sabato scendevano in paese e dopo essersi data un ripulita si avviavano verso le numerose cantine per stare in compagnia e bere un buon bicchiere di vino.
Qualcuno si portava dietro un po’ di formaggio,un pugno di olive,qualche pomodoro essiccato sottolio,un fetta di soppressata. Altri , arrivavano con dello spezzatino o del pescestocco che la cantiniera cucinava e stimolati da quello stuzzichino bevevano litri di vino fino a quando l’oste non li mandava via o a causa delle liti che immancabilmente avvenivano (qualche volta
persino cruente) o perché l’esercizio doveva chiudere.
Anche noi della compagnia della “cucaracha” non disdegnavamo frequentarne qualcuna come non disdegnava la compagnia di giovani professionisti serresi.
Ve ne erano molte cantine a Serra tra Spinetto e Terravecchia. Mi piace ricordarne alcune iniziando da quest’ultima contrada e indicandole con la denominazione che avevano: la cantina della Patrazza ,ubicata al vico II Sette dolori, più in là,nella piazzetta Chimirri, la cantina di Assunta di lu sapenti; dalla parte opposta vi era quella di Busazza ,quella di Marianna di lu mulinaru e poi di lu Previti di lu Diavuliedhu di Marianna di l’armatu ,di Luviginu di Rizza , di Vigilanti, di lu B azzanu, di lu Mutilatu.
Nel rione Spinetto erano anche numerose le vendite di vino. Partendo dal Calvario la prima era quella di Manicu, seguiva subito dopo quella di Centarioni e poi Lu Mandrellu , Jimmi, lu cuottu, Lu Bruniettu“, Ntunuzzu, Lu tiestu, Lu purciedhu, Castagnedha ed altre ancora che sfuggono alla mia memoria.
Alla fine stanchi, alticci e assonnati rientravamo ; c’era ancora in giro qualche maschera che cantava a squarcia gola . Lungo via Roma incrociammo un breve corteo: quattro robusti giovani, seguiti da un gruppetto di maschere che piangevano con alte grida, portavano in spalla una bara su cui stava accovacciato un ragazzo mascherato che con la mano destra reggeva un fiasco di vino con la sinistra una resta di salsicce : era il funerale di Carnevale… niesci tu puorcu mangiuni…..
Giunti a casa di Giuseppe Maria ci liberammo dei vestiti e con un “ arrivederci all’anno prossimo “li riponemmo nella cassapanca ,poi brindammo al Carnevale con l’ultimo bicchiere: quello “ della staffa “.
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