Era la mattina del 18 novembre 1982. Mio padre ricevette una telefonata e si accasciò sulla sedia dell’entrata dicendoci: «Hanno rubato la Spera randi!». Fu per lui come se fosse venuto a mancare un parente, un amico. L’ostensorio realizzato da Domenico Barillari nel 1820 non c’era più e subito si capì che non lo avremmo più rivisto. Dopo qualche giorno di tristezza scattò nella sua mente l’idea di rifarlo per non perderne la memoria e cominciò a fare disegni e progetti per poi concretizzarli con il modello in gesso. Mio padre era uno dei pochi a conoscerlo nei dettagli: ricordo che ogni tanto chiedeva al sacrestano (“lu zziu”) di farglielo vedere almeno per qualche minuto e lui pazientemente lo tirava fuori da un luogo ben riposto della chiesa Matrice e lo metteva sul tavolo, non senza qualche malumore per quella periodica seccatura. Quando lo aveva di fronte me ne raccontava la storia, che ormai conoscevo a memoria, chiedendomi di osservare gli angioletti aggrappati ad un elemento sferico del fusto: «rappresentano i cinque continenti intorno al mondo», mi diceva, «guarda la perfezione dei loro volti, la bocca, le mani, i riccioli». E le due statuine sul piede? «Sono la Fede e la Speranza. Vedi? Al centro c’è la Carità, un pellicano che si squarcia il petto per dar da mangiare le sue viscere ai figli, come Cristo. Sono le tre Virtù teologali». «Domenico Barillari era un grand’uomo, uno di quelli che si avvicinava all’arte con umiltà. Pensa che dopo aver finito questo capolavoro chiese ad un contadino che passava di fronte alla porta della sua bottega cosa ne pensasse: «È molto bello», gli rispose, «ma spighe diritte non ne ho mai viste: quando sono cariche di chicchi di grano si piegano per il loro peso». L’artista allora piegò le spighe che aveva posto sulla raggiera, ai lati della croce, come simbolo del pane, del corpo di Cristo, dell’Eucaristia accettando la lezione del contadino. Questa è l’arte, mi diceva, non la smania di guadagno o la presunzione di sentirsi arrivati dandosi delle arie: c’è sempre da imparare da tutti. L’ho capito nelle botteghe degli artigiani che frequentavo da ragazzo. Mentre i miei amici facevano altro io andavo dai fabbri che dividevano con me le patate cotte sotto la cenere, ma anche da Gaetano Barillari, da Vincenzo Minichini, da “Turi di li Pieppi”, dal professore Tripodi, e il primo insegnamento che ho ricevuto è stato questo». Domenico Barillari, noto per la sua modestia, era un architetto, aveva disegnato piante e mappe per la fabbrica d’armi di Mongiana, uno scultore che aveva realizzato bassorilievi in marmo per le famiglie nobili di Monteleone ma soprattutto gli stucchi dell’Addolorata, che ancora oggi lasciano i turisti a bocca aperta. Quando andò a Napoli per seguire i lavori di fusione della Spera Randi, gli artigiani lo additavano quando passava per le vie della città dicendo: «Quello è il calabrese che ha fatto l’ostensorio». Morì di tifo nel 1829 e i serresi lo piansero come se avessero perso un genitore, un fratello, uno stretto congiunto e lo seppellirono in un luogo distinto della chiesa dell’Addolorata, sotto le volte abbellite da quegli stucchi di cui era l’artifex, l’artefice. La “Spera randi” è stata l’opera serrese più conosciuta ed ammirata, modello per altri ostensori realizzati in seguito. Quando nel 1852 Ferdinando II entrò nella chiesa matrice «vide con ammirazione il nostro ostensorio, come opera dei maestri di Serra» per usare le parole della Platea. Don Bruno Maria Tedeschi raccontava che i forestieri non si saziavano di ammirarlo per le figure, le cesellature e il graziosissimo disegno. Tra i viaggiatori Horace Rilliet che nel 1852 era al seguito di Ferdinando II scrisse che i preti di Serra mostravano il loro ostensorio con lo stesso orgoglio di quelli di Milano quando facevano vedere il reliquiario di San Carlo Borromeo. Insomma “la Spera randi”, l’oggetto più prezioso e ammirato tra il 1820 e il 1982, per più di 160 anni, usato come immagine simbolo durante il congresso eucaristico calabrese nel 1933, monumento nazionale, definito il più bell’ostensorio d’Italia, oggi non è che un ricordo. Quella notte tra il 17 e il 18 novembre 1982, insieme ad una pisside svuotata sull’altare dalle particole, un crocifisso d’avorio, una statuetta in terracotta della Madonna dell’Assunta e ad altri calici, scomparve un oggetto che per Serra poteva considerarsi identitario, forse quello che rappresentava meglio l’arte che questa città era riuscita a produrre. Mio padre lo rifece, con l’aiuto di fotografie ingrandite, con le parti del modello in legno che ancora sopravvivono e con i suoi ricordi. Oggi quest’opera che in un primo momento si era pensato di tradurre in oro e argento e poi fu tristemente accantonata, documenta la grandezza di un oggetto liturgico che non esiste più ed un ricordo che non deve affievolirsi con lo scorrere inesorabile del tempo. Se qualcuno non è stato tanto stolto da farlo fondere per ricavarne qualche chilo di argento e lo possiede ancora, deve sapere che nessuno potrà mai dimenticare quanto è accaduto e che se un giorno dovesse apparire nella bottega di qualche antiquario (ormai è quasi tutto on line!) sarà prontamente riconosciuto.
Clicca per votare questo articolo!
[Voti: 0 Media: 0]