Scrisse in un bigliettino: Meglio il giudizio di Dio che quello degli uomini.
Nel lontano 21 Febbraio 1975 nella Certosa di Serra San Bruno si verificò un evento triste e imprevedibile, che sconvolse le comunità del comprensorio delle Serre e, più in generale, il mondo religioso legato alla Chiesa Cattolica: la morte violenta di Dom Willibrord Pijnenburg, nato l’11 Maggio 1929 in Olanda, da dieci anni Priore del monastero serrese. Lo scopo precipuo di questo scritto non è tanto riportare il fatto di cronaca, ma è quello di rendere un omaggio alla sua memoria come uomo e come religioso, prima che il demone dell’oblio cancelli il suo tormentato percorso esistenziale. La vicenda suscitò diffuso e forte sconcerto, perché era la prima e unica volta che un Priore si suicidasse per impiccamento. L’accaduto fu percepito dalla società di allora come una segno di debolezza umana, smentendo l’opinione che i monaci certosini fossero dei robot senza sentimenti, asettici rispetto alle tentazioni del mondo esterno. A questo proposito, uno studioso dell’animo umano sostenne che la psiche del monaco è la stessa di quella di un laico, cioè soggetta alle problematiche, a volte dure, della vita di relazione. Le notizie oggi raccolte sono frammentarie, solo accennate, quasi sussurrate e noi rispettiamo il riserbo che avvolge come un panno velato questo spiacevole fatto di cronaca. In verità, sappiamo poco di quella notte. Il fascicolo aperto alla Procura di Vibo Valentia probabilmente è andato distrutto; gli operai serresi, che all’epoca erano alle dipendenze del monastero, nulla seppero delle circostanze del tragico evento e, comunque, si limitarono a eseguire la rituale sepoltura; neanche Padre Elia Catellani, deceduto poco tempo fa, ci poté meglio ragguagliare sull’accaduto. Nulla sappiamo, infine, della sua vita che ha preceduto l’adesione all’Ordine Certosino, nella quale verosimilmente c’era già nella sua psiche quel tarlo sopito ma vivo, che a un certo momento si palesò, mettendo in dubbio quella vocazione, che è segno di stabilità nel monachesimo occidentale. A parte quella “laica”, che in questo contesto esula dalla tematica trattata, la vocazione religiosa è quella inclinazione tesa manifestamente verso la missione sacerdotale. I segnali che il Signore trasmette attraverso la “chiamata” si devono intrecciare con la personalità del “ricevente”, ma a volte, con il tempo e l’impatto con le tentazioni mondane, per alcuni religiosi essi divengono man mano più deboli fino a perdersi del tutto. Succede in quei sacerdoti la cui vocazione è fragile fin dall’inizio e quindi destinata ad infrangersi contro “i piaceri epicurei” del mondo laico. In queste ipotesi l’aspirante sacerdote onesto abbandona in anticipo il campo, mentre quello “disonesto” continua sulla via intrapresa, recitando una parte che non gli compete e scambiando la missione affidatogli dalla Chiesa per un “mestiere” di religioso, peraltro ben retribuito. All’epoca dei fatti il nostro Priore scelse, invece, una terza via, quella del suicidio, rimettendosi direttamente al giudizio di Dio. Il suicidio per tutte le religioni come l’Ebraismo, l’Islam, il Buddismo, l’Induismo e il Cristianesimo è considerato uno dei peccati più gravi: “Noi siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato”, afferma la Teologia Morale della Chiesa Cattolica. Tuttavia essa, nel caso del suicidio, considerato di per sé “atto immorale di autodistruzione”, ammette delle attenuanti, quando alla base ci siano depressione, angoscia e disturbi psichici gravi. Ecco allora la Misericordia di Dio, che può raggiungere “anche le persone suicide, ma solo attraverso quelle vie, citate nel catechismo, che solo Dio conosce”.
Privi di prove e di elementi concernenti la vita del Priore e della sua fine, per ricostruire i fatti accaduti possiamo solo analizzare qualche indizio, qualche informazione “sussurrata” e la logica umana, tutti legati da un filo rosso che ci permetterebbe un approccio il più possibile vicino alla verità. L’unico bigliettino scritto di pugno e in fretta, trovato nella sua cella dopo la morte, riporta: “Meglio il giudizio di Dio che quello degli uomini”. Esso sembrerebbe non dare alcuna spiegazione sui motivi che l’hanno spinto a quel gesto estremo, d’altronde si tratta di una asserzione generica e molto usata nel linguaggio comune. Invece, potrebbe non essere così. La frase laconica, posta nel contesto temporale e ambientale nel quale il Priore visse l’ultima settimana, è possibile che nasconda la chiave per capire il perché del suicidio. Ecco, allora, le scansioni temporali delle ultime ore della sua vita. Il Priore sarebbe rimasto infamato per la sua hybris, cioè una presunta trasgressione della missione di religioso e ancor più di monaco certosino, invischiato nelle accuse e nel pettegolezzo paesani. Per tali congetture pare sia stato segnalato alle Autorità della Certosa Madre di Grenoble (Francia), da cui fu sollecitamente convocato, soggiornandovi per una settimana; qui sarebbe stato rimproverato e accusato energicamente, per non dire che fu torturato psicologicamente; infine, sarebbe stato sottoposto a una giudizio sommario e cavilloso.
Durante il viaggio di ritorno rimuginò in un tormento infinito il suo travaglio interiore, domandandosi quale azione dovesse intraprendere. Pensò di fare sosta a Roma ed ebbe un colloquio riservato con il nostro compianto Don Gaetano Scrivo, allora Vicario Generale dei Salesiani; quest’ultimo si trovò davanti una persona sconvolta ed estremamente turbata, ma mai poteva sospettare quali fossero le sue reali intenzioni. Poi il Priore proseguì il viaggio verso la Calabria; dalla Stazione di Lamezia Terme fu accompagnato dal fedele autista Cosmo Valente alla Certosa di Serra, dove sollecitamente pregò gli altri monaci di non disturbarlo durante la notte, essendo stanco del viaggio. Preparò l’esecuzione del suicidio in una tempesta di contrastanti emozioni, che si abbatterono su una mente fragile, dove l’ombrello della razionalità traballò, causando così il risveglio di quel vecchio tarlo che lo aveva forse tormentato nell’età giovanile. Fu così che vacillò la personalità umana, la solidità del certosino e la “fermezza del saggio”, tutte qualità che albergano e rimangono saldamente fisse dentro la psiche del vero religioso di fronte alle lusinghe terrene. Il resto è cronaca.
In conclusione, in questa sede, non ha importanza sostenere se per l’esecuzione dell’atto suicida abbia usato i lacci degli scarponi o la cordicella dei panni o si sia appeso alla porta o se abbia sofferto a lungo prima di morire. Ha importanza, invero, da parte nostra rimarcare la sua innocenza o, nel caso di colpevolezza, implorare il perdono alla Persona Giusta, che conosce la verità. La mattina seguente non si presentò alle preghiere comunitarie. Lo trovarono morto nella sua camera. Così il nostro Priore iniziò il lungo viaggio verso quell’Aldilà a noi ignoto, con la consapevolezza che Dio lo abbia giudicato meglio degli uomini, laici e religiosi, che invece l’avevano accusato e condannato congiuntamente, senza difesa e senza perdono. Per questa presunta ingiustizia commessa noi abbiamo pensato di scrivere una pagina dopo 45 anni, non solo per ricordarlo come protagonista di un fattaccio di cronaca, ma soprattutto per rivalutare “la sua felice memoria” come dicono i serresi.
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