Gli anni ‘50 e ‘60 sono quelli di cui posso ricordare e raccontare qualcosa riguardo l’usanza di alcuni ragazzi che, frequentando la parrocchia, si prestavano a servir messa. A quei tempi le feste religiose, come ora o forse più, rappresentavano gli eventi principali del paese attorno a cui la popolazione aderiva in massa per partecipare alle funzioni in chiesa, al panegirico, alle processioni, a sentire la banda, ad andare alla “fera”, a divertirsi alle giostre, ad assistere ai conclusivi fuochi artificiali. La parrocchia era il luogo di raduno dei ragazzi nel tempo libero: c’erano locali alla Canonica o in piazza con i biliardini e altri giochi e il cinema settimanale, con Turi Vinci al proiettore. Solo alcuni di essi, però, si potevano considerare “previtiedhi”.
Arrivai a Serra che avevo sette anni, ma già a Sant’Andrea Ionio, dove ero nato, ero chierichetto da due o tre anni, frequentatore assiduo del Collegio dei Padri Liguorini. Avendo in famiglia uno zio sacerdote, don Vincenzo, unico fratello di mio padre, mia nonna Alfonsina mi avviò prestissimo alla frequenza della chiesa, come a volermi indirizzare a raccogliere l’eredità spirituale del figlio prete. Devo riconoscere che in tale ruolo da piccolo mi trovavo bene, la veste nera talare e la cotta bianca me le sentivo addosso; servire la messa, dondolare l’incensiere, suonare le campane era come un privilegio. Così fu normale, finite le elementari, entrare in Seminario a Squillace per frequentare la Scuola Media e, di seguito, nel Seminario di Catanzaro per il Liceo ed, eventualmente, per la Teologia.
Questo percorso di un ragazzo a quei tempi era molto più frequente di oggi. Ho descritto in sommario le mie motivazioni personali, ma non saprei dire in dettaglio quali siano state le condizioni personali e familiari degli altri che nello stesso periodo erano i chierichetti e poi i seminaristi di Serra. Ricordo che alle elementari eravamo diversi chierichetti: in particolare, non dimentico Nick Pisani, di cui ho già scritto l’anno scorso nell’articolo “Bettinuzza di Jose”; un altro di soprannome “Toscia”, di altri ora mi sfuggono i nomi e mi dispiace.
Negli anni in cui ero a Squillace sono stati con me Bruno Larizza, Ottavio Ariganello, mio fratello Vincenzo, Antonio Amato e Vincenzo Raghiele; dopo vi andò Michele Pisani. A Catanzaro c’erano Francesco Timpano, Leonardo Calabretta, Biagio Amato, Angelo Vinci, Biagio Cutullè, Antonio Catroppa, Antonio Iorfida “lu Macciettu”; Gerardo Letizia era tra i Salesiani, Cesare Lombardo (in veste nera con la fascia rossa) era al Seminario di Reggio Calabria.
Di tutti questi soltanto sette sono diventati sacerdoti, gli altri hanno abbandonato alla Media o al Liceo. Angelo Vinci ebbe una conclusione particolare: rimase a lungo diacono, cioè in attesa di prendere messa, poi emigrò in Canada, senza aver ottenuto l’ordinazione, sembra per opposizione del Vescovo Fares.
È evidente che quelli più grandi di me erano “previtiedhi” già nei primi anni ’50 o prima.
Al Seminario di Catanzaro ho portato la veste talare di continuo solo nei due anni di Ginnasio, poi è stata abolita.
Quando eravamo chierichetti c’era un legame stretto tra noi per la frequenza delle funzioni, ma anche una certa competizione per servire la messa, per portare il turibolo o per suonare le campane, in particolare la campanona di S. Bruno. Non posso dimenticare da bambino le sette ore circa di processione dell’Addolorata, con l’ultimo tratto di Via Sette Dolori al rallentatore, con la marcia funebre della banda e la nostra malcelata stanchezza…
La nostra “chioccia” alla chiesa Matrice era “Turi lu sagrestano”, personaggio factotum indimenticabile; altri frequentatori e operatori di sacrestia e di campane erano “Micuzzieru” Speziale, netturbino di Spinetto, “Brunicieru lu guobbu” Borello e Mario Mannella. Avevamo da Turi una paghetta settimanale di Lire 25, che subito andavamo a spendere in gelati al bar Fiorindo. Quando ero al Liceo ricevere nelle feste di Congrega Lire 2000 ci sembrò una conquista. In quelle occasioni la messa cantata in latino e i canti del coro femminile avevano un sapore antico, di cui si può avere nostalgia.
I motivi per cui di tutti “li previtiedhi” alcuni hanno abbandonato la via al sacerdozio sono vari: qualcuno avrà riconosciuto l’assenza della cosiddetta “vocazione”, ma altri perché erano stati inviati in Seminario per uscire dalla “strada” o fuggire dalle “cattive compagnie” oppure per studiare in ambiente serio. Il che significa che non tutti entravano in Seminario per seguire la “chiamata”, ma vi andavano sospinti o obbligati dai genitori.
Ricordo, al proposito, perfino alcune fughe dal Seminario di Squillace, che si sono verificate durante l’anno: memorabile, per me, quella di mio fratello e Vincenzo Raghiele. Naturalmente sono stati ripresi e riportati in sede.
Io attesi l’esame di maturità classica per decidere di non continuare, ma già negli anni precedenti avevo comunicato ai miei superiori le mie perplessità circa la vocazione e devo riconoscere onestamente che nessuno di loro mi ha mai condizionato o impedito di fare la scelta che ritenevo giusta.
Serra è stata tradizionalmente nel passato un centro ricco di vocazioni e, quindi, di sacerdoti. Al proposito i più anziani tra i lettori potrebbero ben raccontare tanti simpatici aneddoti riguardo alcuni di essi. Inoltre, si contano sei Vescovi, originari di Serra San Bruno: l’ultimo è stato Mons. Bruno Pelaia, Vescovo di Tricarico (MT), ma ricordo anche Mons. Bruno Maria Tedeschi, Arcivescovo di Rossano (1835-1843).
Ora, come tutti vedono, la società è profondamente cambiata e l’avvicinamento alla parrocchia, alla chiesa e alle funzioni religiose è diverso da come qui raccontato o, almeno, rispetto a quello che personalmente ricordo.
Per concludere, non so quanti dei lettori siano saliti sul campanile della Matrice solo per vedere le campane. Per me bambino “previtiedhu” era ogni volta elettrizzante.
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