– Bongiornu, ah cummari Cuncetta! Duvi jiti cu sa limba supa alla testa; duviii?! –
– Bongiornu a cummari Nziata! Bongiornu puru a vui! Ca duvi vaiu! Vaiu allu fiumi mu mientu a muodhu li panni ca dimani fazzu la vucata. –
Proprio così! La vucata. una parola quasi del tutto scomparsa nel linguaggio quotidiano di un’epoca dove ormai tutto è tecnica e l’automa ha il sopravvento nella vita di tutti i giorni. Per lavare la biancheria familiare oggi, come si sa, viene usata la lavabiancheria, cioè macchina che fa tutto da sola. Fino a oltre mezzo secolo fa nelle nostre case, anzitutto non c’era l’acqua corrente. Per poter bere, cucinare, lavarsi di persona o lavare tutto ciò che ci necessitava, bisognava andare alle fontane pubbliche situate nei vari rioni e riempire bottiglie, guozzi, quartari, cuccumi, limbi ecc. Solo negli anni ’50 Serra San Bruno ha potuto godere dell’acqua corrente in casa e da allora si è messo fine anche al lavaggio della biancheria lungo le sponde dei “fiumi” Ancinale, Garusi, Galedha, Schicciu, Un altro punto di riferimento per lavare la biancheria era lu laccu, cioè un condotto in cemento che portava l’acqua al mulino di Cienzu (Vincenzo) di lu Previti e Brunina di lu Monacu che, tuttora si trova alla fine della salita che porta a Guido (foto 3). Successivamente la tecnologia ha avuto il sopravvento e venne il dominio della macchina lavabiancheria.
Prima si procedeva in maniera assai diversa.
La biancheria veniva lavata, come detto, recandosi ai fiumi sopra indicati con la biancheria nelle vasche (limbe), con la tavuledha, cioè una tavola scanalata di circa 40×50 cm, incastrata in una robusta cornice per impedire la fuoruscita dell’acqua. In uno degli angoli della parte superiore veniva costruito un sostegno per mettere il sapone. Sulla tavuledha veniva strofinata più volte la biancheria insaponata e poi risciacquata nelle acque nitide (allora) del fiume. L’altro strumento, che in genere si usava, era costruito da due tavole di circa 50×30 attaccate ad angolo retto tra di loro e sostenute da due listelle laterali: veniva adoperato per inginocchiarsi e avere l’acqua a portata di mano. Non tutte le comari, però, potevano avere il “lusso” di la tavuledha e, quindi, andavano alla ricerca di uno di quei grandi sassi di granito che emergevano dal fondo delle acque lungo gli argini del fiume e su di esso strofinavano, torcevano insaponavano la loro biancheria.
Andare al fiume non significava soltanto lavare, sciacquare e torcere biancheria. Solitamente le donne andavano a gruppi anche per chiacchierare e scambiarsi notizie fra loro. In quel tempo non c’erano le passeggiate sul corso, o i telefoni in casa o altro tipo di comunicazione. Quindi andare al fiume poteva essere un attimo di distensione.
L’altro modo di lavare la biancheria era la vucata, operazione, questa, un po’ più complessa perché erano necessari un maggior numero di attrezzi e più tempo. Uno degli elementi essenziali era la cenere e per questo motivo quando era prevista la vucata, la legna da ardere nel focolare era o di faggio e di abete, mai di castagno altrimenti la biancheria avrebbe subìto delle macchie indelebili. Gli altri due strumenti necessari erano lu tiniedhu, un grosso e grande recipiente di robusta terracotta con un “becco” in basso per la fuoruscita dell’acqua e lu cinnaruni, cioè un grosso e ampio telone. Le operazioni si susseguivano a regolari intervalli. Anzitutto lu tiniedhu veniva riempito con biancheria pesante e di robusta struttura come le lenzuola di tela, coperte e roba simile. Mai roba colorata altrimenti si smuntava: questa si lavava al fiume. Sopra la biancheria veniva steso lu cinnaruni, che, a sua volta veniva riempito di uno grosso strato di cenere e pezzettini di sapone profumato anche esso prodotto in casa con la murga, cioè residui di olio d’oliva.
Contemporaneamente a questi preparativi, veniva acceso un fuoco sul quale veniva collocata la quaddara, un grande e vasto recipiente di rame riempito di acqua che, una volta divenuta bollente, veniva versata sopra la cenere formando così la lissìa, cioè un liquido ricco di sali che pulivano e davano un particolare profumo alla biancheria. L’acqua che si scaricava dal fondo era tiepida e veniva raccolta in altri recipienti e poi riversata dentro lu tiniedhu. Questa operazione durava quasi mezza giornata e alla fine le donne stendevano i panni lavati alle finestre o ai balconi per l’asciugatura. La vucata terminava, poi, con la stiratura adoperando ferri caricati di carbone ardente o riscaldati sulla brace. La lissìa non veniva gettata, anzi era richiesta con una certa insistenza dalle comari della ruga (rione) per lavare i pavimenti o la biancheria colorata.
Anche la cenere era assai richiesta da quelli che volevano concimare le piante dei balconi e delle finestre. Così era e così ho raccontato. Tempi passati, proprio passati.