Finiti i grandi lavori del dopo terremoto, effettuati per la ricostruzione della Certosa, i mastri serresi scalpellini, si trovarono ad affrontare, come tutti gli scalpellini del mondo, un competitore di taglia: il cemento armato. Anzi, per dirla tutta e senza giri di parole, questo nuovo prodotto, nel corso di meno di un secolo, distrusse la loro arte.
Verso la metà dell’ottocento, con “l’apertuta dei passaggi” così si diceva, molti scalpellini partirono per l’America. Andarono nello Stato del Vermont, dove il sottosuolo è composto di ottimo granito grigio, compatto, con l’occhio piccolissimo.
Quei pochi che tornarono, riportarono, oltre a nuovi metodi di lavoro, nuovi attrezzi. Fra questi, il famoso “ndrillu” citato dal nostro Poeta. Grazie a questo attrezzo, il lavoro per l’estrazione del granito dalla cava, veniva facilitato evitando così le “scoppature”. Col nuovo metodo le spaccature venivano dritte e precise, bisognava solamente conoscere il verso del granito, che è poi la prima cosa da imparare dal mastro.
Prima di passare all’arte e all’acume dei serresi, in questa parte seria dello scritto, è d’uopo riportare un aneddoto.
Fui trasferito a Sherbrooke, una città del Quebec a qualche chilometro
del confine col Vermont. Il capo meccanico della succursale Olivetti mi chiese il permesso di assentarsi un lunedì (una specie di ponte).
Era andato a Berrie, la città che vive esportando granito. Lì, parlando con lo zio che l’ospitava, fra una birra e l’altra (cito il meccanico) disse: – “ il nuovo direttore, Mr. Pisani, mi ha dato una giornata extra, il lunedì, potrò dunque rimanere con voi fino a martedì sera…”-
-“Hai detto Pisani? Qui a Berrie, il prete è Pisani; il mio vicino di casa è Pisani…”-
Gente partita da Serra subito dopo l’Unità d’Italia. Oltre ai serresi andarono là anche quelli di Carrara. Dopo tre / quattro generazioni si sente qualche
“mala nova mu ti vena” con l’accento toscano.
Da Serra andavano verso la marina, specie sulla costa Ionica, i fabri, i falegnami e gli scalpellini. Lavoravano presso i notabili, le chiese, i conventi, l’aneddoto sul convento di Badolato ne è una prova, ma specialmente fabbricavano frantoi. Erano lavoratori stagionali e, nel tardo autunno, rientravano a Serra. A menocché erano scapoli e trovavano l’anima gemella. Allora il trasferimento diveniva definitivo.
Fra questi, mio nonno. Impalmando una Mirigliani, rimase a Santa Caterina per il resto dei suoi giorni. Anzi, per la storia, crediamo sia stato lui ad ospitare il Poeta serrese. Fu uno dei pochi ad emergere e, quando prendeva dei lavori che richiedevano molta manodopera, faceva venire scalpellini da Serra. Fece così anche mio padre e continuarono a fare così i miei fratelli fino al loro espatrio.
In quasi tutti i paesi della marina, c’è un mastro serrese.
Questi mastri, oltre alla loro arte, esportavano acume, risposte immediate, detti. Ai mastri, bisogna aggiungere le maestre. Non poche infatti, maritando forestieri, andarono ad abitare il paese del marito, portandosi dietro lo spitito, la risposta immediata, il detto, lo sfottò.
Incominciamo con una zitella, sorella di un sarto, Vincenzo (Grenci?) Chitarrelli. Aveva la sartoria difronte la Legione dei Carabinieri di Catanzaro. La sorella, che abitava e lavorava con lui, conoscva quasi tutti i carabinieri clienti. Uno di essi, che era stato a Serra da brigadiere, quando passava, servendosi dell’espressione di mastro Bruno Pelaggi, imitando il nostro dialetto le diceva:
-“A majistra, viditi ca lu surici si mangiau la ‘ncuina”- Un giorno, la majistra perse pazienza e rispose:
-“ Lu sacciu, a Marasciallu, lu sacciu, ca si mangia la punti quatrata, la tunda vi la dassau…”-
A Isca c’era un fabbro. Il pover’uomo, cambiando paese non cambiò fortuna. Nei paesi di marina, i meno abienti mangiavano fave, ed il nostro mastru Sarvaturi che apparteneva a questa categoria, chissà quante fave avrà mangiato. Un giorno, una vicina gli chiese:
-“ A mastru, chi mangiastivu?”-
-“Favi mangiai, favi, chimmu li vindanu ‘ntra la carta vilina”-
Il nostro mastro rientrava dalla forgia. Per andare a casa doveva percorrere un vicolo strettissimo. Nel vicolo c’era un contadino che scaricava il suo asino. Mastru Servaturi si fermò a buona distanza.
“-Mastru, passati, passati ca lu ciucciu mio non mina”- disse il contadino accorgendosi della paura del serrese.
-“ Scarricatti lu ciucciu ca non hajiu prescia”-
-“ Passati, non vi spagnati, lu ciuccio mio non minau mai…”-
-“ E si vola mu cumincia mo a minari???”-
Una volta mio nonno lavorava una lastra di granito. Doveva dunque necessariamente ‘ntaguardari”. Si accosciò all’altezza della lastra e, chiudendo un occhio, con l’altro sfiorava il filo delle due righe poste orizzontalmente alle due estremità. Un operaio scavatore (non mastro) ma manuale, gli chiese:
-“ A mastru Brunu, non viditi buonu?”-
-“ Avirissi mu cadi fina a duvi viju jio!”-
Uno dei miei fratelli, un bel ragazzone pieno di vita, aveva adocchiato una contadinotta con fondo vicino la cava. Cercava una scusa per allontanarsi.
-“Non pozzu fari u pezzu (faceva un frontone) ca la regula è storta”-
-“Fa’ il pezzo storto (gli intimò mio padre) fallu stortu comu la regula”-
Dietro casa mia, a Serra, abitavano li Cumpiessi. Quando Emilia ( morta da poco a Toronto) sentiva qualcuno dire Cumpiessi, la reazione era immediata:
-Chimmu vi cumpessanu di prescia”-
Zia Assunta ( Fatuneddha) ebbe una lite per un posto al cimitero. Era la tomba della sorella e si credeva in diritto di tenerla per sé. Nella diatriba con l’altra famiglia che voleva la tomba, e che poi ebbe, le mie sorelle, li Guierri presero le parti della zia. Quando si resero conto che non c’era piú niente da fare, suorma Nunziata disse:
-“ Tinitivila la tomba, tinitivila, cu tanti aguri…”