Quando in una comunità si è stati indifferenti per molte generazioni ignorando tutto del proprio tempo antico e di esso vi resta così poco quanto incerto nella narrazione colta, allora si rimedia con il fiorire delle leggende raccontate dai vecchi, ai quali la memoria s’intrica sfociando nell’apologia dei ruderi, per dimostrare quanto venga sentito il bisogno di possedere una Storia in cui sentirci figli dei Padri, sia pure rifatta di vacuità e fantasia.
E così, a dire il vero, questa volta mi era venuta l’idea di una storiella breve e bugiarda, invece mi sono ritrovato a ricomporre note di Storia.
Dagli orti dei Vignali a settentrione o dai fondi di Alù a mezzogiorno, variamente da dove si può guardarla, Arena si mostra per lungo sul colmo della dorsale collinare, invece rialzando lo sguardo dalla cuna di Dasà, appare raccolta sul gibbo del monte all’aria dei suoi 496 metri sul livello del mare.
Ma in testa al paese, sulla spianata di maggiore rilievo a dominio dei sottostanti valloni e delle conche alluvionali del fiume Marepotamo, si radicano i ruderi pietrosi del castello normanno poco distaccato dalle vestigia turrite del suo acquedotto servente, che sbarra l’insellatura del profilo morfologico tra l’altura dello stesso castello e la sorgente d’acqua sull’opposto versante.
Oggi è tutto ciò di quanto rimane, come il dente rotto di una Storia fermatasi lì da più di due secoli, da quell’immane “tremuoto” che avvenne nel 1783 anche ricordato come il “flagello della Calabria”.
Altri terremoti accaddero prima, nel 1659 e 1743 ed altri ancora dopo nel 1894, 1905 e 1928, senza che però nessuno si fosse ingenerato nel sottosuolo di Arena superando mai la potenza e rovina del 1783.
Così, dopo quella funesta congiuntura, l’ormai desolato castello più che le offese del tempo subì le spoliazioni d’ogni ornamento e di tutti gli arredi per ruberie e trasferimenti, come anche le sue stesse pietre furono cavate per le ricostruzioni padronali nel paese di Arena.
Quel “Tremuoto”, per meglio dire quei tre sconvolgenti terremoti nel corso dei 51 giorni da febbraio agli ultimi di marzo, nel mezzo dei quali Arena risultò epicentro, fagliarono in lungo e in largo raggio e fecero franare la Calabria centromeridionale dalla costa all’Appennino sulla vita di 80.000 persone!
Molte altre persone morirono di conseguenze carestose ed epidemie, ma i superstiti si inebetirono per lungo tempo nel terrore e nel tedio fatalista, confondendo o rimuovendo gran parte della loro memoria.
…E come si può immaginare, anche gli archivi dei monasteri, dei palazzi pubblici e di quelli ecclesiastici subirono irreparabili perdite documentali, segnando la cesura della Storia fra il tempo di prima del terremoto e quello successivo.
Per questo pensiamo che pur spigolando notizie tra le eterogenee pubblicazioni ed annotando fonti inerenti non si possa ricavare ancora per oggi una severa contezza storica sulla città di Arena dall’XI secolo fino al 1783 dell’XVIII, anche per quanto riguarda l’incastellamento originario e delle sue ristrutturazioni operate dall’avvicendamento dei casati feudali.
Il castello di Arena ben si crede edificato dai normanni, secondo replicati progetti di difesa nell’esigenza condizionata dal tempo e dalla natura del sito, che si confronta con similari strutture sperimentate in altri luoghi dagli stessi costruttori.
E’ perciò che oggi si osserva sorgere su di uno sperone roccioso appresso più elevato e distaccato dal paese, ma che poteva anche trovarsi congiunto al vertice di una cinta difensiva (ormai scomparsa) che si sviluppava a quota più inferiore, intorno al gibbo dell’attuale “campanaro”.
Quasi sicuramente, sul punto sommitale del campanaro si stanziava un “presidium” già esistente dall’epoca bizantina fra il VI e l’XI secolo, costituito nell’ambito del riordinamento del dominio imperiale per il “Thema” di Calabria (circoscrizione militare-amministrativa), conciliandosi con la congettura che anche quell’antico “presidium” bizantino forse si edificava sulla pianta di una più precedente sottostruttura d’insediamento romano.
Il tracciato del’antica cinta difensiva del “presidium”, che comprendeva il “burgus”, doveva svilupparsi ad anello ellittico sulle attuali via Tirone e Corso Vittorio Emanuele III, confluenti agli opposti vertici con la casa marchesale di via Santa Maria e la calata di via Generale Filardo.
In quel “praesidium” si acquartieravano i “milites” reclutati dai “tironi” abitanti del borgo, forse all’origine dell’odierno toponimo di via Tirone, che erano obbligati alle servitù per la difesa e per la coltura della gleba (della terra).
Arena fu Signoria del sistema economico feudale e baluardo di difesa diretta per gli sparsi casali di Dasà, Acquaro, Brazzaria, Pronia, Potamia, Limpidi, Ciano, Gerocarne, Simiantone e Migliano
A quel tempo, dal presidio sul Campanaro di Arena prima e dopo dal castello normanno in difesa sull’amba più elevata del colle, si controllava un cruciale passaggio per la dorsale delle Serre, denominato da qualcuno “passo Berra”, che nel vasto Stato feudale dei due mari conduceva in linea trasversale dal versante tirrenico della via Popilia-castrum Melitense-Marina di Gioia sul versante ionico di Stilo, in vista per l’oriente greco.
Da enarrare in sintesi che nel periodo a cavallo tra il primo e il secondo millennio, le terre di Arena si ripopolarono di moltissimi “fuochi” (famiglie) di coltivatori e di allevatori, oltreché di calabresi che avevano abbandonato le coste devastate dalle scorrerie piratesche.
Anche nei luoghi ipogei o tra i valloni rumorosi dei torrenti, come nei suoi silvestri silenzi, le terre di Arena offrivano rifugio ai cenobi dei monaci orientali provenienti dalla Grecia al seguito dell’esercito bizantino e poi invece in fuga dalla Siria, dalla Palestina e dall’Egitto a causa delle lotte iconoclaste ed infine dalla Sicilia per salvarsi dall’avanzata islamica.
– Dal 1060 circa i conquistatori normanni fecero giungere in Calabria, perché li inserirono nel proprio sistema feudale, anche i monaci di rito latino degli ordini certosini e benedettini -.
Per attribuire una data all’origine del castello di Arena, con riferimento al primo casato che lo possedette in feudo, si deve incominciare dal 1059, vale a dire dall’accordo di Melfi con il quale i fratelli normanni Roberto e Ruggero Altavilla si rendevano vassalli del Papa Niccolò II.
Il Papa conferiva a Roberto detto il Guiscardo il titolo ducale sui territori già conquistati di Puglia e Calabria e di “Dux Siciliae” per l’isola che avrebbero conquistato, ma pretendeva dai due fratelli Altavilla anche l’impegno che latinizzassero tutti i domini conquistati per convertirli sotto l’egida della Chiesa di Roma.
Se allora, Roberto il Guiscardo divenne duca di Puglia e di Calabria anche il fratello Ruggero in qualità di vassallo del Guiscardo riceverà da quest’ultimo la contea della Calabria Ultra, compresa tra la linea nord del fiume Neto con le pianure di Decollatura fino alle coste reggine a sud.
Così, il ventottenne Ruggero, nato nel 1031, nella penisola del Cotentin in bassa Normandia, ad Hauteville-la-Guichard (paese non avvalorato da certezza) e ultimo dei dodici figli di Tancredi d’Altavilla e di Frissenda si stabilirà allora nel castrum Melitense (attuale parco ruderale di Mileto Antica) fortificando le precedenti strutture di difesa della città per l’impianto di una Corte-castello – “Divenuta regia gloriosa dei Normanni non si tenne indietro a qualunque altra città metropoli. Qui, infatti, correvano i popoli vassalli per compimento della giustizia politica; da qui si spedivano, Ministri sia di politica che di guerra. Qui correvano le ambascerie de’ principi forestieri, qui si solennizzavano gli sponsali del Conte e delle figliole; qui occorse la nascita di tanti principi, singolarmente di Ruggiero II che poi divenne il primo Re di Napoli e di Sicilia”- (da: ‘La Calabria illustrata’ di Giovanni Fiore da Cropani, 1622-1683; massimo storico calabrese del “600, religioso dell’Ordine dei frati minori cappuccini e lettore di teologia) -.
(segue in seconda parte…)
Grosseto, 10 aprile 2019 di Rodolfo BROGNA
A questo link troverete la seconda parte —>>>