L’antico borgo di Arena conseguì rilevanza nel medioevo dalla seconda metà dell’anno mille, in quel rapporto intrapreso con Mileto che diventava la capitale comitale del normanno Ruggero d’Altavilla, almeno finché il Gran Conte prevalentemente lì visse e poi vi vi morì.
E la Mileto di oggi, come nella stessa Calabria ultra di allora, si scorge dagli spalti diroccati del castello arenese, guardando lontano a vista dritta sotto lo schianto del sole; sempre al di la sulla valle del Mesima nella pallida trasparenza dell’aria, di come si scorge per un brulicare striato sulla vasta pendice del monte Poro che si rialza all’orizzonte… e la notte, fra le luminanze di tanti paesi è quel grumolo più lungo di luci pulsanti.
Appena dopo il trattato/accordo di Melfi del 24 giugno 1059, l’audace Ruggero avendo ritenuto il sito collinare del “Castrum melitense”, dagli erti fianchi sulle confluenti fiumare Scatopleto e Perrera, che era il meglio votato alla difesa – <<…un crinale di terra fra due gole sul cui fondo scorrono due fiumiciattoli. A est si vedono appennini azzurri; e, da un’apertura tra le colline a sud, si scorge in lontananza il mare… di Messina>> (di Hernry Gally Knight, nelle sue note di viaggio in Calabria e Sicilia, dall’agosto all’ottobre del 1836) – ed anche convenientemente strategico, a margine della consolare via Popilia fra la valle del Mesima e l’altopiano del monte Poro ed in posizione relativamente poco distante ed occultata dal mare per dare tempo di prepararsi contro le incursioni dei pirati saraceni, scelse allora di fondare su quel crinale la propria Magnifica Corte, dove accogliere le riverenze delle ambascerie straniere e darvi prova di lustro potere ai suoi vassalli.
Da quel momento che il giovane Conte Ruggero d’Altavilla, si conquistò un proprio feudo e il suo titolo comitale ed un proprio feudo e si ornava di gloria nella campagna di Sicilia avendo conquistato Messina con tutta la parte orientale dell’isola fino ai limiti di Castrogiovanni (Enna) ed di Agrigento, egli si volle pronto per un’altra insigne prova alla volta di San Martino in Val di Salin, dove sposerà invece a Natale del 1061 la nobile normanna Giuditta d’Evreux, della quale se n’era invaghito sin dai tempi di Hauteville-la-Guichard.
Ma presto ritorna con la sua amatissima Giuditta a Mileto, dove festeggeranno magnificamente le nozze e da cui poco dopo ripartiranno per la conquista finale della Sicilia musulmana, innalzando dal 1063 il vessillo papale con l’icona bizantina di “Maria SS. Delle Vittorie” donatogli da Papa Alessandro II.
In meno di vent’anni, il Gran Conte Ruggero confortato dai primi successi ottenuti abbellirà e arricchirà la nuova “castrum militense”e vi edificherà una Cattedrale e l’Abbazia benedettina della SS.Trinità quasi annessa alla sua reggia- castello.
Il 10 gennaio 1072 espugnata Palermo, quasi tutta la Sicilia sarà in mano dei due fratelli Altavilla e per meriti di gran coraggio e fedeltà, Ruggero conte di Calabria viene anche nominato Primo Gran Conte di Sicilia dal proprio stesso fratello maggiore Roberto il Guiscardo, che così lo eleva di fatto al rango di 1° Re normanno di Sicilia
A Mileto, nel 1073 vi trasferirà anche la sede vescovile di Vibona (oggi Vibo Valentia, compreso il sottostante breve arco di costa) ch’era stata già saccheggiata in molteplici incursioni saracene documentate dall’827 d.C. e rasa al suolo nel 983, aggregandovi dopo circa vent’anni anche quella vescovile di Tauriano (che fu in sito all’odierna Palmi) per bolla papale “Potestatem ligandi” di Urbano II che costituiva l’unificata diocesi di Mileto.
In quella regia Corte, Ruggero d’Altavilla avvierà utili rapporti politici con i legati dell’oriente bizantino e con le ambascerie musulmane del nord Africa, stringendo rapporti di amicizia anche con gli altri dignitari dei regni franchi, per stringere affari commerciali e garantirsi protezione su tutti i quadranti del Mediterraneo .
Ma qualche anno più tardi, nel 1076 Giuditta 1^ contessa di Sicilia si consuma e muore in Mileto, lasciando Ruggero padre di 5 figli (per alcuni storici invece erano 4 figlie, poiché Giordano l’ultimo ed unico maschio era illegittimo).
Trascorre poco tempo, ché nel 1077 il Gran Conte si risposerà con la longobarda Eremburga di Mortain, ma di cui si conservano poche notizie e dalla quale sarà stato reso padre forse di altri nove figli.
Intanto il fratello Roberto il Guiscardo duca di Puglia e di Calabria, morirà per grave deperimento febbrile il 17 luglio 1085 durante l’assedio di Cefalonia e per promessa successione ereditaria dello stesso fratello a Ruggero gli resterà la Contea di Sicilia, conservando in assoluta legittimità anche il titolo di Gran Conte di Sicilia e Calabria.
Morirà anche Eremburga e nel 1089, lui già quasi sessant’enne per l’ultima volta si sposerà con una discendente del potente casato degli Alerami e marchesi del Monferrato, la giovanissima Adelasia del Vasto
Nove anni dopo a seguire, per aver liberato la Sicilia dall’Islam e per il merito di aver latinizzato le terre conquistate, il Gran Conte Ruggero porta a sé un altro successo, il 5 luglio del 1098 si vedrà ratificata dal Papa Urbano II l’investitura di primo Gran Conte di Sicilia e di Calabria equivalente al rango di primo Re di Sicilia, ottenendo anche la concessione della ”Apostolica Legatio”, con la quale potrà nominare egli stesso i vescovi e fondare nuove diocesi in Calabria e in Sicilia
Eppure, tra il 1095 e 1099, il Gran Conte Ruggero per defilarsi dalla crociata indetta da Papa Urbano II, perché non intendeva fare guerra ai musulmani con cui manteneva importanti interessi commerciali in Nord Africa, rifiutò l’alleanza con i franchi che invece volevano invaderla, rispondendo loro con una irriverente “scorreggia” a gamba levata e dicendo: <<Affé mia, questa vale più di codesto vostro discorso!>>, ma suggerendo agli stessi l’alternativa di conquistare solo Gerusalemme, di cui meglio avrebbero potuto farsene vanto
Allorché siamo giunti alla fine del secolo XI, i normanni avevano superato già da tempo l’epopea delle scorrerie mercenarie e dei saccheggi ed era venuto così il momento di consolidare le conquiste.
Tutti i suoi successi ed i meriti riconosciuti non si fondavano solo sulla personale destrezza per le armi e l’audacia per la conquista, ma erano sempre rinfrancati dalla virtù di saper condurre convenienti accordi di ferrea fedeltà e di aver consolidato preventivamente l’unità del regno normanno.
Per questo aveva istituito nei territori conquistati un valido apparato presidiario e di controllo, ristrutturando i preesistenti casali bizantini a modello castrense e facendo costruire i nuovi castelli dalle elevazioni murarie a scarpata, a cui erano uniformate anche le torri angolari di sud-ovest dell’originario castello di Arena (VV), che costituivano i simboli severi del primo sistema feudale normanno fin nelle più lontane province rurali
Per garantirsi la fedeltà dei signori delle contrade più periferiche, il Gran Conte Ruggero impose l’istituto feudale della gerarchia vassallatica fondata sulla concessione dei feudi ai propri familiari Altavilla e a quei nobili cavalieri normanni più fidati come i Mortain, i Borello, i Lucy, gli Avenel e gli stessi Colchebret di Arena.
Anche ai religiosi estese i benefici e le immunità, donando chiese, monasteri e terre con il privilegio di esigere tasse per loro stessi e di esercitare la giustizia, nell’intento di far rinsaldare attraverso la comunanza ecclesiale il legame di riverenza da parte del Popolo della gleba verso il potere sovrano del Gran Conte.
Ruggero I d’Altavilla il Gran Conte di Sicilia, alla fine che fu uomo ambizioso e ardito condottiero per tutta la vita, come fu anche molto premiato dalla sorte, nei suoi ultimi anni di appagata anzianità lasciava spesso il caposaldo di Troina per ritornare dalla Sicilia nella sua eletta Patria di Mileto, dove qui terminerà di vivere il 22 giugno 1101.
Aveva sposato tre mogli che lo resero Padre di tredici figli… o sedici, secondo alcuni storici, ai quali si aggiungerebbero numerosi altri figli illegittimi.
La sua ultima consorte, la Gran Contessa Adelasia del Vasto, gli fu vedova illustre, dimostrandosi anche lei saggia e di mano ferrea nella reggenza del regno normanno in funzione del loro figlio Ruggero II, nato nel 1095, fino a quando il rampollo non giunse alla maggiore età per ereditarne il trono.
Anche lei si risposò nel 1113 per diventare regina di Gerusalemme con Baldovino di Fiandra, ma ne ricevette una vita infelice e morì ripudiata e impoverita a Patti nell’aprile del 1118.
-…Circa dall’VIII al XIII secolo dell’Evo di mezzo, i discendenti delle stirpi nordiche, da impavidi draghi del mare diventarono guerrieri esploratori di terra, che nominandosi Dener, Vichinghi, Normanni, Rus’ e Vareghi, sparsero regni e contee per tutta l’Europa senza aver mai costituito un unico impero.
Dalle brumose terre di Scandinavia e Danimarca che il sole lambisce obliquo, corseggiarono verso est sulle pianure russe di Novgorod, per discendere i grandi fiumi Volga e Diniepr fino a Kiev (Ucraina) ed il mar Nero, ma anche in tal modo ad ovest per l’altra via del Baltico e del Mare del Nord calarono sul cuore dell’Europa, attestandosi nell’arcipelago britannico e sulle coste della Manica, attraversando le terre franche e del Sacro Romano Impero per costituirvi insediamenti, fino a giungere nel meridione d’Italia in numero sparuto di cavalieri, orfani di regni che qui si offrivano alla mercé dei latini, dei longobardi, di bizantini ed arabi, perpetrando saccheggi e cercando gloria per farsi duchi.
…- Nella traduzione di Luigi Russo, studioso di Storia medievale e dei normanni, da un tratto della “Historia ecclesiastica”, VII libro, cap. 15, del monaco inglese Orderico Vitale (n.1075 – m. 1142…?), si offre la psicologia in esauriente descrizione del cavaliere normanno :
«I Normanni sono fortissimi quando retti da una guida salda e inflessibile, tutti si distinguono indomiti nelle situazioni difficili, e i più valorosi fanno di tutto per superare ogni nemico. In caso contrario si dilaniano e distruggono a vicenda: infatti bramano le rivolte, desiderano le ribellioni e sono pronti a compiere ogni nefandezza. Pertanto devono essere obbligati dal duro controllo della rettitudine e costretti lungo il sentiero della giustizia dal freno della disciplina. Se invece viene loro permesso di andare dove vogliono, come un asino selvaggio privo di giogo, essi stessi e i loro principi devono attendersi niente altro che miseria e un ignobile disordine»
Anche il contemporaneo Errico Cuozzo, scrittore medievalista li definisce “quei maledetti Normanni”, che si prestavano al servizio di ogni borsa, di quella degli ultimi principi longobardi di Salerno, di Capua e di Benevento, degli ecclesiastici di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno e dei bizantini.
Inveterati cavalieri sempre propensi a dare battaglia con armi pesanti e corazze quasi integrali ed attaccavano schierati in serrate compagini.
Erano pochi e quasi tutti di elitario rango, scesi in Italia non per cercare spazi vitali con le proprie genti, ma ognuno per far bottino e farsi re, conquistando castelli e usurpando gastaldati.
In un secondo tempo anche i normanni, per formare il corpo di massa dei loro eserciti si costrinsero ad arruolare mercenari bizantini, arabi, pugliesi e calabresi e per impiantare l’amministrazione civile dei regni conquistati si avvalsero delle capacità pratiche e della conoscenza dei sottomessi latini, arabi e greco-bizantini impiegandoli come redattori degli atti pubblici e conservatori della più sentita tradizione greco-bizantina.
E pensare che poi essi sdegnavano di congiungersi con le donne indigene, perciò anche quella stirpe “Conclubet” di Arena non contaminò il popolo, come non vi furono contaminazioni di geni normanni nemmeno in altri feudi, forse lasciarono nell’indifferenza tanti “bastardi”, come si diceva in quei tempi, ma non lasciarono nomi e lignaggio.
Al contrario invece di come avvenne con i bizantini, i goti e i Longobardi, che in Italia si trasferirono in numero generalizzato, lasciandovi nomi, stirpi e caratteri fisiognomici, perfino in Sicilia quegli inconciliabili musulmani, che occuparono l’isola dall’821 d.C. al 1091.
In quella seconda metà dell’XI secolo, i Normanni “corseggiavano” per le contrade di un’Italia meridionale politicamente disgregata, in cui si stava ristrutturando l’assetto delle forze nelle contese di dominio, con in campo il Sacro Romano Impero tedesco, il Romano Impero Costantinopolitano, il Papato latino, gli ultimi gastaldati longobardi e con la Sicilia occupata dagli arabi che inoltre mantenevano fatui avamposti anche lungo le coste tirreniche e adriatiche.
La popolazione era caratterizzata dalla sovrapposizione-mescolanza di etnie e linguaggi: gli arabi musulmani occupavano la Sicilia e come si è anzidetto anche alcune enclavi lungo le coste tirreniche e ioniche; in Calabria e per buona parte della Basilicata e della Puglia c’erano i greco-bizantini che seguivano la Chiesa di Costantinopoli, mentre sopravvivevano ancora le rimanenti contee longobarde di confessione cristiano-latina.
Oltre al bilinguismo greco-arabo in Sicilia, in Calabria e in Puglia prevaleva invece il greco.
Se era pur vera la loro inferiorità numerica in confronto alle genti delle diverse comunità autoctone, seppero però farsi virtù della necessità di interagire con le locali abitudini accogliendo le originalità culturali e le tradizioni religiose delle genti conquistate, pur se nelle periferie feudali si incentivava la progressiva latinizzazione.
Per questo si lasciò passare alla Storia l’esemplarità della Mileto del Gran Conte Ruggero, dove convergevano tutte le etnie e le culture presenti in Italia.
Dopo la morte del Gran Conte Ruggero I, sicuramente Arena medievale subì un notevole calo di rilevanza, riguardo alla sua funzione di osservazione e di difesa verso Mileto quando la stessa capitale normanna fu trasferita a Palermo per volontà del figlio Ruggero II, che ricollocava così in Sicilia il baricentro strategico del regno e quindi rispetto al Mediterraneo.
Però, anche questo figlio Ruggero II, re di Sicilia e di Calabria, ben si rivelò all’altezza del padre e nel 1127, si indirizzò a conquistare il difficile ducato di Puglia dopo la morte del duca Gugliemo, suo cugino di secondo grado, che non lasciava eredi.
Ruggero alleatosi con l’antipapa Anacleto II, per vincere la guerra di successione per il ducato di Puglia contro Roberto II di Capua ed il papa Onorio II, ottenne dall’alleato l’incoronazione di secondo re di Sicilia, Calabria, Puglia e Capua a Palermo nel Natale del 1130 (riconosciuta anche poi dal successore papa Innocenzo II nel 1139) e riuscendo ad unificare l’Italia meridionale così in un unico regno dalla Sicilia all’Abruzzo, con estensione dei domini nel 1147 a Malta e sulle sponde del nord’Africa, sull’isola di Gerba e sulle coste da Tripoli a Gabes, Sfax e Susa.
Quel regno di Ruggero II nell’Italia meridionale, che assimilava culture e stirpi di greci, longobardi, arabi e franchi, non finì però nel 1250 con la morte di suo nipote Federico II Imperatore, re di Sicilia (e Puglia e Calabria) e Gerusalemme, figlio della normanna Costanza d’Altavilla.
Con uguale estensione territoriale il Regno perdurò fino al 1860, ma Federico II, lo “Stupor mundi”, proprio di quel regno di Sicilia creato dai suoi avi normanni, lasciò un esempio di integrazione interculturale per lunga memoria ed una tradizione spirituale che includeva la Poesia della Scuola poetica siciliana, assimilando la Poesia provenzale dei musici trobatori di lingua d’oc, accolti nella stessa Corte federiciana di Palermo.
Una Poesia dai teoremi amorosi cantati con le rime dell’Amore Cortese sulle note del flauto e della ribeca, per la donna desiderata ed irraggiungibile, che diede Stile alla poetica toscana di lingua volgare, espressa in nuova forma dai primi poeti G.Guinizelli e Dante Alighieri, Cavalcanti, Lapo Gianni, Frescobaldi, Alfani e che superarono le precedenti attribuzioni amorose della Scuola Palermitana rigenerando un Amore eloquente, elevato a sentimento estetico-morale per la “donna angelicata”, come <<al cor gentile reimpara sempre amore>> del Guinizelli.
Al “Dolce stil novo” nel secolo successivo si conformeranno la letteratura della nascente lingua italiana, le arti figurative e la concezione per un vasto rinnovamento estetico che si espresse anche nell’architettura e perché riscopriranno l’uomo attraverso l’osservazione estetica ed oggettiva dei modelli greci e latini potranno ingenerare quell’esplosione corale del Rinascimento italiano.
Tanto per dire poco, la nostra lingua italiana più d’altro in stile fonetico-lessicale, deriva dalla lingua volgare fiorentina del “Dolce Stil nuovo”, ma affonda le sue radici ancor prima in quegli stili dell’Amor cortese della Poesia trobadorica della Scuola Poetica Palermitana, nel regno normanno federiciano di Sicilia.
Si evince come in quel cruciale passaggio storico dopo il 1059 (trattato di Melfi), dall’ascesa di Ruggero d’Altavilla per il titolo di Gran Conte di Sicilia e Calabria alla successione di suo figlio Ruggero II a re di Sicilia nel 1130, nel burgus di Arena un signore feudale imporrà ai suoi vassalli e servi della gleba “l’angaria” del lavoro gratuito, per edificare fino al completamento merlato il suo castello, di cui oggi le vestigia ruderali restano ad infondere austera suggestione sul dominio più alto del colle.
E da allora, ancora per circa nove secoli, il castello di Arena in complessivo con l’imponente acquedotto dai perduti archi murari, a monte dei ripidi pendii sui torrenti di Petriano e Scotrapiti, si faranno immagine del potere feudale a vista lontana sulle valli del Marepotamo e del Mesima.
Segue Terza Parte
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