Nel ricercare vecchi documenti mi sono imbattuto in un dattiloscritto purtroppo anonimo che racconta una favola antica legata ad un proverbio popolare. Fa parte di un gruppo di carte sciolte appartenute al maestro Vincenzo Agostino, che fu direttore didattico presso la scuola elementare di Serra San Bruno. Il maestro proveniva da Mammola ma si era sposato a Serra prima con Rosa Valente e poi, rimasto vedovo, con la cognata Celidea Valente, ed aveva ricoperto la carica di Podestà dal 1927 al 1936 e più volte era stato priore dell’Arciconfraternita dell’Addolorata (1903, 1904, 1908, 1912, 1916, 1917, 1918, 1919) . Era molto interessato agli usi e ai costumi locali, tanto da pubblicare una serie di articoli il 1891 e il 1893 sul periodico «La Calabria», fondamentali per la conoscenza delle tradizioni popolari serresi. Morì a Serra il 27 aprile del 1959 – quasi centenario – ed è sepolto tra gli ex priori nel cimitero dell’Addolorata. Vincenzo Agostino è un altro uomo caduto nell’oblio, ma ha segnato il suo tempo ed ha lasciato una traccia indelebile del suo passaggio nella storia di Serra San Bruno.
Il breve testo della favola, attribuibile al maestro Agostino, ma già conosciuta a Serra, tanto da far sospettare un’origine più antica, viene qui riportato integralmente, senza emendamenti: «In Calabria è abbastanza diffuso un detto popolare: Cu appa fuocu campau – cu appa pani muriu (che significa: Chi ebbe fuoco visse, chi ebbe pane morì). Questo adagio ha origine da una leggenda, che vi voglio raccontare. Su alcune montagne, a Serra San Bruno, in provincia di Catanzaro, esiste una contrada di faggi, nella quale, in un lontanissimo inverno, si riunirono tre poveri. Essi stabilirono di mettersi in giro, ognuno per suo conto, alla ricerca di pane, di legna e di fuoco. Così si misero in cammino. Dopo qualche settimana, i tre poveri si adunarono di nuovo al posto convenuto. I due che erano stati a procurare legna e fuoco, accesero sulla neve una catasta di rami secchi di faggio, ma, avendo fame, chiesero al terzo compagno un poco di quel cibo che aveva questuato. L’altro era un grande egoista e fece capire che della sua provvista non voleva darne a nessuno. — Ah bene! — dissero i compagni — e allora noi non ti daremo fuoco. Intanto la neve scendeva giù a larghi fiocchi e s’era fatto un gran buio che non lasciava vedere quello che accadeva a pochi passi di distanza. I due che erano intorno al fuoco trascorrevano le ore sbadigliando per la fame e sperando che il giorno dopo avrebbero mosso a compassione la gente buona perché avesse dato loro di che sfamarsi. L’ingordo, avendo mangiato a sazietà tutto il suo pane, fu sopraffatto dal sonno e quindi sepolto dalla neve che seguitava a cadere. Alla scialba luce del mattino, i due che, durante la notte, se l’erano passata sdraiati al caldo, si levarono in piedi e, a pochi passi dal fuoco, notarono che la neve aveva formato un monticello bianco. Si misero allora a scavare e sotto il monticello trovarono il compagno morto, irrigidito dalla neve. Da allora si divulgò il detto: Cu appa fuocu campau – cu appa pani muriu. Nella contrada di faggi, in ricordo di quel povero, ogni contadino che passa di là, getta il suo bastoncello. Poi, in un certo giorno dell’anno, nel pieno inverno, si dà il fuoco al mucchio non piccolo di bastoni, credendo che, con questi sacrifizi, l’anima dell’uomo morto si riscaldi e si conforti».
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