Da Paul Claudel, accademico di Francia, a Trilussa, poeta romanesco e gloria nazionale; da Giusti, poeta satirico dell’Ottoceto; a Pier Paolo Pasolini, regista e scrittore, vissuto e morto nel Novecento,tutti parlarono e scrissero sul porco. Questo suino, come lo chiamano gli zoologi, è, con l’asino e col cane, l’animale piú vilipeso, insultato e maltrattato dell’universo. Di tanto in tanto lo si vuole nobilitare, come nei menú, per esempio,e allora si chiama maiale. Ma sempre porco è, checché se ne dica e se ne faccia. Una fetta di soppressata, di quelle soppressate annerite dal fumo e maturate col tempo, con tanto di lagrimae di aroma, fa venire l’acquolina in bocca anche se si è sazi e arcisazi…Quando le fettine di pancetta abbandonano pian piano il naturale colore biancastro per assumere quello dorato imposto dall’olio fritto; quando quei pezzi quadrangolari perdono la loro forma per attorcigliarsi su sé stessi divenendo quasi sinuose, come volessero sedurre il palato; quando, insomma, il gusto per la leccornia ci fa diventare bucolici, allora e solo allora, dimentichiamo il porco ed il suo grufolare. L’arista, arrosto di maiale che da secoli delizia centinaia di generazioni, fa dimenticare, almeno nei monenti in cui si gusta, tutto il brago del mondo, ambiente naturale per ogni porco che si rispetti. “ Lu puorcu è alla muntagna e l’acqua gugghia” dicevano gli antichi. Ecco, dunque, che il lontano parente del picaro c’ispira anche al proverbio. Che dire poi delle espressioni che ci detta il vivere del porco? “Fare la vita del beato porco” si dice di qualcuno che pensa solo a mangiare e al dolce far niente. “Sporcaccione!” grida la mamma al bambino che si è appena insudiciato.
LA PREPARAZIONE -“Quest’anno- domanda qualcuno non senza un tantino di malizia – l’avete fatto il porco?”“Sì – risponde l’interpellato – abbiamo ucciso il maiale” evitando così tutti gli equivoci possibili. Qualche tempo prima Natale, passava il Fraticello: lasciava costui una pignatella (vuota ovviamente) per poi riprenderla piena di strutto. E qui non possiamo a fare a meno di andare indietro nel tempo ai giorni della scuola e ricordare il saggio del Marchesino Eufemio… Dunque,quando si faceva bollire il grasso, era una corsa alla caldaia (perché nella caldaia si prepara) ad assaggiare i primi ciccioli. Di questa specialità ci sarebbe da dire molto. Sfortunatamente chi scrive queste note storico-culinarie non sopportava il fetore emanato dalla caldaia che impestava la casa ed in quelle occasioni, coraggiosamente se la dava a gambe… I ciccioli, detti sulla costa Ionica frisali o ciculi; “’nzunzi” in alcuni paesi del Reggino e “zziringuli” sulle Serre, hanno fatto la delizia di tanti ghiottoni. “Tuttu lu mundu è frittuli” si dice di qualcuno che non vede la miseria altrui. Pare che per queste cotiche la gente faccia pazzie.
LA CRESCITA – Quando il porco ha due-tre mesi di vita, il suo proprietario decide dell’avvenire dell’animale. Se di sesso maschile lo si vuole farlo ingrassare,allora, senza ricorrere allo specialista, un buon contadino lo può castrare e farà del porco un maiale da ingrassare. Se si tratta di una “porcella”,così la chiamano in Basilicata, allora per castrarla bisogna ricorrere allo specialista:il castratore. Su questo personaggio, nel suo Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi ci lasciò delle pagine meravigliose. Il grugnire del porco, specie nel momento in cui, con fare da vero porco,mette i piedi nel truogolo, (“scifu” per chi volesse l’originale nostrano)è qualcosa di disgustante. Il suono che esce dal quel grugno, sebbene Claudel ne abbia parlato come si trattasse di una sinfonia,è così poco gradevole che non è per niente discordante col fetore emesso dallo stabiuolo (porcile, per i toscaneggianti) e lo spettacolo nefando di quei piedi nel truogolo. Chi non aveva altri mezzi, cresceva il proprio maiale con ”grudati o brucati”che dir si voglia, poi,verso il settimo, ottavo mese, bisognava nutrirlo con qualcosa di piú solido: ghiande, granoturco, avena ecc. E ciò fino al raggiungimento del quintale. Un porco, infatti, non si uccideva mai sotto i cento chili.
AFFILIAMO I COLTELLI – Nel tardo autunno o all’inizio dell’inverno,anche se in certi paesi della marina si spingono fino a febbraio,i proprietari di maiali si accingono a mettere mano ai coltelli. Si preparava dunque la caldaia con acqua bollente. Si fissava una capacissima madìa pronta a ricevere il corpo del porco ucciso. Tre, quattro uomini robusti afferravano il maiale che in quei momenti lanciava i suoi acuti berciando a piú non posso, e mentre due o tre di loro lo mantenevano solidamente, il piú esperto sgozzava la povera bestia infilando il coltellaccio fino al cuore. Ovviamente, per quelle famiglie in cui non c’erano uomini atti a questo lavoro, c’erano delle persone del mestiere a cui ricorrerre. Il sangue colava in un secchio dove, con fare veloce, lo si frullava per non farlo coagulare. Piú tardi con quel sangue si preparava lu sangunazzu. Quando il porco era completamente esangue si portava a braccio e lo si depositava nella madia. S’incominciava così a rasarlo con coltelli affilatissimi, previo ovviamente getti di acqua bollente. Quando era bell’e pelato si issava verticalmente e si appendeva a due uncini, dalle zampe posteriori, testa in giú. Allora si divideva per estrarre le inetriora e si divideva in due precise “minzini”.
LE PROVVISTE – A questo punto il lavoro degli “scannapuorci” finiva ed il porco, meglio, la carne, veniva lavorata dalle donne di casa. La loro esperienza era indiscussa: sapevano dove tagliare. Abbiamo accennato prima: col sangue si faceva lu sangunazzu, da non confondere col sanguinaccio che consiste in una frittura di sangue e farina. “Lu sangunazzu” si confezionava negli inestini con aromi e “cuonsi”. Con la cotenna si facevano “li frittuli”, vera delizia per i buongustai. Altro piatto prelibato pare sia “i peducci”, sebbene il famoso “ragoút de pattes de cochon” quebecchese abbia superato almeno per fama il “peduccio” emiliano. Per i capicolli la preparazione era particolare. Fasciati, anzi legati stretti ed attorniati con stecche verticali maturavano col tempo; salati a dovere quanto bastava a mantenere la carne e non troppo per farli divenire salati: una vera maestria ci voleva!…
GLI INSACCATI – E che dire delle salsicce e soppressate? Per quest’ultime, chiamate “fungi di travu” ci vorrebbe un capitolo a parte…ma non lo facciamo: sarebbe davvero abusare della buona pazienza del lettore. D’altronde ne abbbiamo parlato all’inizio dello scritto, rischieremmo di ripeterci. Le invettive: porco qua; porco là; porco sú, porco giú. E gli applausi: viva il porco! (quand’è salato!)