– Caccia lu pedi e mentilu a lu puosto tue! – – Si non mi scarfu mi tornanu li ruosula. – – Cu st’anchi luonghi ti pigghi tutta la rota, tira la seggia arriedi! – – Ajiu li pedi ‘nghilati ca mi trasa l’acqua ‘nira li scarpi. – – Asciucati li pedi cu ‘na pezza e pue vieni scarfati. –
Chi non ha vissuto in montagna, o almeno in un paese abbastanza freddo, queste espressioni non le avrà mai sentite. Eppure erano le parole ripetute nei paesi freddi della lontana (dagli occhi o dal cuore?) Calabria. Dal mese di settembre si iniziavano le provviste invernali. Per prima cosa si pensava alla legna e al carbone. Carbone, non carbonella. Doveva essere di faggio, di quercia, di elce. Insomma di legno duro. Carbone a cannolo ci voleva e senza fumacchi senza li corvini”, per chi ricorda ancora il bell’idioma. “Cu appa fuocu campau, cu appa pani moriu” diceva il motto antico, e, grazie ad esso, le spese per le due provviste venivano giustificate. Verso la fine di ottobre si tirava fuori il braciere con relativa ruota (pedi, per i linguisti) della “ stramata” e si scendeva a piano terreno dove avrebbe troneggiato per almeno quattro mesi nella grande stanza di soggiorno. Il braciere, di rame (specie se piccolo) o di ghisa, era di forma circolare e munito di due manici. La ruota invece, oltre a circolare, poteva essere decagonale, dodecagonale ecc. e di legno. Sulla superficie della ruota, cinque o sei buchi in cui s’infilavano i piedini dello “asciucapanni”. Verso la fine di ottobre il braciere era dunque pronto per l’uso ed i primi di novembre (di Tutti Santi la nivi pi’ li canti e di li muorti la nioi pi I li puorti) si accendeva. Per quella prima volta bisognava procurarsi un po’ di cenere dalla Il ciminera Il che servisse a ma’ di fondo o letto per il fuoco. Si mettevano quindi i carboni e si accendeva con qualche brace rimasta nel camino. Ovviamente, fin quando il carbone non si accendeva al completo, si lasciava il braciere (il braciere solo, non la ruota) o fuori, o sotto la cappa del camino. Ciò per evitare che l’anidride carbonica rimanesse in casa ad addormentare (per sempre) qualcuno. Per quanto bello ed accogliente, per alcune donne, specie se vanitose, il braciere era nemico. Con l’inizio dell’inverno e dunque con la necessità di sedersi al fuoco, cominciava, per le poverette dalla pelle delicata, il periodo delle salsicce. I Vita vissuta Una serata attorno al braciere da Montréal Ciccio Pisani di li Guierri “fucidi” chiamati in certi altri paesi “fucili”, erano un obbrobrio. Bellissime gambe, fregiate da quegli irregolari disegni dovevano rimanere prigioniere in calze scure fino al mese di giugno. Alcune vecchiette, quelle cioè costrette a scaldarsi anche di estate, dovevano, le tapine, sopportare quelle brutture da un anno all’altro. All’inizio della stagione invernale, la maggioranza delle donne progettava i lavori da effettuare durante le lunghe serate d’inverno attorno al braciere. Cera chi disfaceva la maglia fatta l’anno prima per rifarla con un muovo disegno. In quel caso una “spilava” e l’altra aggomitolava la lana. Chi invece faceva una maglia nuova, comprava la lana e per prima cosa, con l’ausilio di un paio di braccia che tenevano la matassa, si confezionavano dei grossi gomitoli. A questo punto è d’uopo una noticina storica: a quei tempi, ora non sappiamo, l’unità di misura di peso per la lana era il rotolo. Le più brave erano capaci di copiare un disegno visto su una rivista. Qualche volta, oltre ai ferri, bisognava ricorrere, come nel caso della treccia, ad un ferrettino che manteneva la maglia e permetteva di prenderla più in là. Le prime “ferrate” venivano fatte con una certa titubanza,meglio, con una certa attenzione, poi il lavoro procedeva spedito anche quando, ed era quasi sempre, le maglie lavorate Si alternavano con quelle piane. Al giro della manica s’incominciava a mancarne qualcuna fin quando, studiata la curva some si voleva, si completava il lavoro. Ogni tanto un filo, talvolta distrattamente un gomitolo, cadeva sul fuoco. La reazione era immediata: “fietu d’urzu, fietu di arzu” e la filastrocca subito detta: “fietu di arzu, cu si vruscia si ripezza e cu no, risparmia filu, gugghia e pezza. Il La “cuazetta” si faceva con quattro ferri fini, finissimi se la si voleva delicata. Verso il calcagno si procedeva con due soli per tornare a quattro più il ferrettino verso la fine quando si iniziava” lu peduni”. Alcune signorinelle, ricamavano parte del corredo. I tovaglioli, oltre ai ciondoli o continua frangia, dovevano avere, a due centimetri del bordo, un filetto di punto a giorno. Al centro poi, o in un angolo, il solito disegno ricamato a trapunto. Il punto ombra era forse il più difficile, anche se il più bello era riservato a mani esperte. Fra i disegni, il fiorellino, di solito una mammoletta o un ramo con sopra un passerotto. Insomma, tutto ciò che era delicato. Anche col punto a croce riuscivano dei bei lavori intrecciando i fili come gambi di muschio. Oltre ai già citati lavori di ricamo, a maglia o alli uncinetto, si procedeva, come se lo stare con le mani in mano fosse un peccato capitale, a dei lavori che avrebbero preso molto tempo durante la laboriosa giornata. Nettare, per esempio, il grano o altri cereali prima di cuocerli; schiacciare le ulive per fare la succulenta “ulivetta” (ah, se la cara signora Sina si mettesse la mano sulla coscienza, ne farebbe più spesso … ); si puliva la verdura ecc. Ad un certo punto arrivava l’aggeggio più atteso: “l’asciucapanni”. Su di esso si stendevano appunto dei panni da asciugare, ma non serviva solo per . questo, “l’ asciucapanni Il si prestava a tutto. Prima di tutto impediva agli “scarfanti” di occupare molto spazio intorno al braciere. Su di esso si metteva una specie di piattaforma improvvisando così una rudimentale “buffetta” sulla quale si stendeva la tovaglia… Lassopra due amici tiravano “le orecchie a Marco” e se era forzata, contavano il quarantotto … Insomma, quell”‘asciucapanni” era una vera provvidenza. Appena acceso il fuoco della mattina, in un punto del braciere si metteva la “pignata” con i fagioli, a volte qualche patatina sotto la cenere, più spesso delle castagne per fame delle caldarroste. La sera il mattone da portare a letto. Prima delle trasmissioni di Nunzio Filogamo: “Cari amici vicini e lontani, buona serali o altre trasmissioni radiofoniche, intorno al braciere si parlava, eccome! Era quello il luogo per eccellenza dove si raccontavano le favole “paraguli”. Esse andavano da quella di Il Tridicinu Il a quella del drago con sette teste. Dalla principessa sfortunata alla strega cattiva … Ma l’argomento prediletto era “i morti”. Quante se ne raccontavano! Dal prete che appariva e scompariva al bambino che aveva visto la bella signora; dal monaco di cerca al cavaliere col mantello. Insomma, chi ne sapeva, ne raccontava. Gli ascoltatori, tutti con la bocca aperta, mentre i più giovani avevano paura di andare a letto: “stasira mi tiranu di li pedi” aspettavano con occhi sonnolenti che i più grandi andassero a dormire. Quando ormai tutti stanchi incominciavano a “sarnbatiiari”, la mamma, corona in mano, cominciava: Padre nostro … e bisognava rispondere fino alla fine. Si pregava per i morti e per i vivi, per i sani e per gl’infermi, per gl’infedeli e per i carcerati. Poi tutti in ginocchio. La mamma iniziava la Litania: Il Kyrie eleison … “ Quando l’”ora pro nobis” cambiava in Il miserere nobis Il si era alla fine. Con la paletta si copriva la brace di cenere e con una frettolosa “buona notte” si andava a letto.