Venendo dalla stazione ferroviaria, meglio, percorrendo la vecchia strada che dal porto di Vibo (oggi Vibo Marina)menava a Pizzo, dopo una semicurva appariva la cittadina protetta dal “beatu Giorgiu e ‘u santu cavaiu”.
L’imponente colpo d’occhio poteva essere uguagliato, senza tuttavia essere sorpassato, da quello che offriva Scilla ed il suo medievale castello. Dunque Pizzo appariva nella sua maestosità, ritta su uno scoglio, la torre del castello a mo’ di corona; le case ed i palazzi che formavano la parte superiore della faccia d’un immenso gigante con la bocca, una grande bocca, sempre aperta: era la galleria delle ferrovie dello stato.
Mezzo secolo fa, oltre ad essere uno scalo ferroviario importante, Pizzo rappresentava, per l’entroterra, un centro commerciale per eccellenza. Era là, infatti, che i grossisti amalfitani si stabilivano per servire, oltre ai paesi della costa, quelli di mezza collina fin sulle Serre.
Ed era a Pizzo che si andava ai bagni, sulla frequentatissima spiaggia (verso lo Ionio non c’era nessun autobus); com’ era a Pizzo dove si prendeva il treno.
Questo preambolo per descrivere alcuni personaggi tipici.
Le prefiche (li ciangiulini)
Come tante altre città della costa,anche Pizzo avrà subìto le sue invasioni piratesche e come tutti i paesi invasi, mantenne, nel corso dei secoli, alcuni costumi importati dagl’invasori.
I canti, le nenie, il bercio di risonanza orientale; quel frignare che si sentiva nei lutti dei paesi del Sud, insomma di quella specie di “piagnisdeo” alcune donne di Pizzo ne fecero un mestiere.
L’uso delle prefiche (ciangiulini) affonda le radici nell’antico Egitto; piú in qua, nei poemi di Omero si parla di abbondanti lacrimate…e una ventina di secoli dopo, Dante dice a Francesca “Il tuo lacrimar mi rende triste e pio”… Saltando di altri diciassette secoli, Khrouchtchev afferma che le canzoni italiane sono tutte lacrimogene ed i film con Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari ne danno atto.
Ma, torniamo a Pizzo. La cittadina che produce lo zibibbo piú dolce, rimase impassibile alla fucilazione di Gioacchino Murat, rendendogli amara la fine: “mirate al cuore ma risparmiate il viso” pare abbia detto il vanesio Re di Napoli.
Chi sono “li ciangiulini”? Precisiamo a priori che a Pizzo le donne non lavoravano fuori, eccezion fatta per quel breve periodo della raccolta dello zibibbo (raccolta, non vendemmia) e per quello della passa dei tonni, momento in cui la moglie del pescatore si sentiva piú vicino al marito. Il resto dell’anno accudiva alla casa.
Naturalmente, anche i “giangiulini” facevano questa vita tranne quando in un paese del vicinato c’era lutto di qualche benestante.
Anticamente, non tanto indietro nel tempo, quando in un paesello moriva qualche nobile o riccone, dopo aver sciolto i capelli e fatto il doveroso pianto, gli amministratori, parenti lontani o servi di un certo livello, partivano…andavano al vicino convento per assicurare la presenza dei monaci al solenne funerale; alla piú vicina città ad ordinare le corone; al piú vicino paese con complesso bandistico…Insomma in tutte le direzioni per gli uomini e le cose che rendessero il funerale imponente.
La migliore carrozza partiva per Pizzo,appunto, a prendere “li ciangiulini”. In essa viaggiava, all’andata, giusto come lo era la moglie del sarto di manzoniana memoria, una donna di carattere che imponesse rispetto e che conoscesse vita e miracoli del defunto. La funzione di questa donna sembrava semplice ma era oltremodo complessa: ragguagliare, mettere al corrente, alludere ai vizietti della già buon’anima, citare, incorniciando, le buone opere fatte; le virtú, calcando, ma non troppo,la mano;le buone abitudini; evitare con cura le cattive…Insomma, durante il viaggio di ritorno, la brava signora doveva raccontare, dalla nascita alla morte, la vita dell’illustre scomparso.
Arrivate sul posto, le prefiche sedevano attorno al corpo ed iniziavano il loro fiottare. Si davano il turno: la prima, ad esempio, raccontava,sempre gemendo, gli anni della giovinezza; la seconda, per non essere di meno, la interrompeva con un lungo lamento e con tanto di “trivulu”, una specie di pianto sommesso, raccontava, ad esempio, il periodo passato alle armi. Il tutto a piglio asciutto e con arte consumata.
Ogni tanto, fra tanti studiati gemiti, si sentiva un vero singhiozzo:era quello dei familiari che, punti dal ricordo di questa o quella azione, decantata ed ampliata dalle “ciangiulini”, piangevano davvero. Poi, a funerale finito, la stessa carrozza, senza tuttavia la presenza della donna, non era piú necessaria, le prefiche tornavano nella ridente cittadina in attesa di un altro morto di grosso calibro.
Da Montreal, Ciccio Pisani di li Guierri