Un Pastore molto amato dai Cirotani. Ottenne la proclamazione di San Nicodemo a protettore della citta’.
Serra San Bruno non solo Certosa, non solo “Mastranza di la Serra” che ha generato una folta schiera di valenti attori in tutti i campi dell’arte, ma anche feconda terra di spiritualità avendo dato i natali ad un numero abbastanza considerevole di sacerdoti e a ben quattro vescovi e due arcivescovi che si sono distinti per zelo ed umiltà d’azione.
Mons. Domenico Giancotti, vescovo di Isola Capo Rizzuto diocesi suffraganea dell’allora Metropolia di Santa Severina, del quale poco o nulla è pervenuto ai nostri giorni.
Segue Giuseppe Barillari, Pastore della Chiesa di Cariati le cui sacre reliquie riposano nel cimitero monumentale di Serra dove è nato nel 1847 e morì nel 1902.
Coevo al Barillari fu Mons. Biagio Pisani (1850 – 1919), nominato arcivescovo di Lepanto il 7 gennaio 1901 dopo essere stato alla guida della Chiesa di Famagosta dal 1895 e di quella di Cesarea dal 1897 prima di morire, colpito da cecità, nella sua Serra con il rammarico di non aver potuto indossare la porpora cardinalizia, chè a tal fine era stato nominato coadiutore del Cardinale Capecelatro.
Ed ancora l’arcivescovo di Rossano Calabro Mons. Bruno Maria Tedeschi, da A. Graditone, nella sua “Storia di Rossano” (ed. MIT, 1967) ricordato ai posteri come “teologo di grande dottrina, oratore eloquentissimo e spirito aperto alle iniziative più moderne”, morì nel gennaio 1843 a Salerno.
Ultimo, in ordine cronologico, Bruno Pelaia, nato a Serra San Bruno il 27 maggio 1903. Il 29 giugno 1960, nella Basilica dell’Immacolata di Catanzaro, consacrato vescovo da Mons. Armando Fares e destinato a Tricarico, in provincia di Matera. Qui inizia il suo apostolato di Pastore prima come Coadiutore del Vescovo mons. Raffaele Delle Nocche e, alla morte di questi, vescovo di questa Chiesa il 10 febbraio 1961. È stato uno zelante, amico e severo Pastore e soprattutto un Padre particolarmente rivolto ai suoi seminaristi ai quali donava tutto il suo interesse, li aiutava nei problemi personali, li aiutava anche materialmente perché potessero proseguire con serenità i loro studi e per essi istituì una borsa di studio diocesana e segnatamente per quelli più bisognosi. Si è spento a Roma il 18 luglio 1974.
Ma il primo di questa edificante schiera è stato Mons. Domenicantonio Peronaci
Nato a Serra San Bruno il 23 gennaio 1682, da Giuseppe e Innocenza Papa, ordinato sacerdote il 29 febbraio 1708 e laureato in utroque iure nel 1717 nello Studio di Napoli, era uno studioso di alta statura culturale e spirituale e perciò molto apprezzato in Vaticano. Autore di un’opera edita a Napoli nel 1754 dal titolo “Dissertazione intorno l’ordinanza dei chierici” e di varie opere inedite come la “Teologia dommatica”, la “Logica”, le “Lezioni filosofiche” e di tre volumi in folio che trattano “ De alienationibus rerum ecclesiarum, et de controversiis iurisdictionalibus”.
Da Sharo Gambino ( Sull’Ancinale – Ed.Mit, 1982) apprendiamo che “fu protonotario apostolico dopo essere stato vicario generale a Isernia, Valva Sulmona ed Urbino. Rifiutò ben due volte la prelatura offertagli da Benedetto XIII su segnalazione di Marcello Passari, vescovo di Isernia e poi di Amalfi.”
Il papa Clemente XII, il 17 novembre del 1732 lo creò vescovo e, dopo il rito solenne della consacrazione celebrato il 28 dicembre a Roma dal cardinale Annibale Albani, prese possesso della antichissima diocesi di Umbriatico, nell’alto crotonese, il 1° febbraio 1733, “col titolo di barone di S. Martino di Maratea e S. Nicola dell’Alto” come specifica Gambino. E non solo. In virtù di questo titolo potè ricevere, nel gennaio 1735, Carlo III il Borbone ospite degli Spinelli feudatari di Cirò.
Si rivelò da subito, oltre che studioso, anche mecenate e benefattore e per questo godette sempre della stima della Curia romana, tant’è che fu nominato, nel 1747, visitatore apostolica dell’altra diocesi suffraganea, quella di Isola Capo Rizzuto e nel 1750 prelato domestico e assistente al soglio pontificio.
La Chiesa umbriaticense, da sempre suffraganea dell’allora Metropolia di Santa Severina, era stata creata nel sec. IX, e tale è sempre rimasta fino al 1818 anno in cui è stata soppressa in seguito al Concordato tra la Santa Sede e il Regno di Napoli. Testimone della importanza, nonostante la periferia di un piccolo paese arroccato sui monti presilani, della sede vescovile rimane l’antichissima, imponente e maestosa Cattedrale, eretta nel sec. XI al centro dell’abitato, dedicata in origine alla Madonna Assunta, poi a San Donato vescovo e martire di Arezzo. Il sacro sito, come ci informa lo storico cirotano Egidio Mezzi, nel corso dei secoli subì diversi rifacimenti e restauri, i più notevoli furono quelli eseguiti nel 1533 dal vescovo Giovanni Cesare Foggia, nel 1610 dal vescovo Sammarco che fece assumere all’edificio l’aspetto barocco, ricco ed elegante, che fu poi potenziato nel 1701 dal vescovo Olivieri e nel 1725 ab imis dal vescovo Loyero che eseguì lavori di così vasta portata che, ad opera ultimata, riconsacrò la cattedrale e infine nel 1949 quando il vano basilicale, con grande sconcerto della popolazione di Umbriatico, fu denudato e liberato dalle sovrastrutture barocche recuperando la spazialità originaria. Da visitare anche l’antica cripta, la vecchia chiesa bizantina del IX-X sec., con 3 navate, 12 colonne isolate di pietra di varia sezione e 20 pilastri che sorreggono 21 volte a crociera.
Collegato alla torre campanaria della cattedrale c’era l’episcopio, la residenza ufficiale dei vescovi di Umbriatico dove però questi non amavano abitare perché il palazzo era vetusto e necessitava di continue riparazioni e per l’insalubrità dell’aria che provocava seri malanni ai prelati “ praesertim aestivo et autumnali temporibus cui immaturae episcorum mortis fatum extremum attribuitur”.
Perciò sin dalla metà del Cinquecento i vescovi di Umbriatico preferivano dimorare la maggior parte dell’anno nella vicina Cirò, più accessibile, più popolata e più salubre oltre che il centro più popoloso dell’intera diocesi. La popolazione complessiva della diocesi, al tempo del Peronaci era di circa diecimila abitanti, ma nei secoli oscillò fortemente fino ad avere un calo demografico di cinquemila abitanti, determinato da ricorrenti incursioni turchesche, calamità naturali ed epidemie, in particolare il vaiolo nel 1679 che provocò la morte soltanto a Cirò di 550 cittadini. Nel corso del suo intenso e fecondo apostolato al vescovo serrese furono proposte sedi più ambite, quali Gerace e Squillace, ma le rifiutò per vivere nella semplicità e nell’umiltà di una piccola sede vescovile.
Le amorevoli attenzioni di Mons. Peronaci furono rivolte al popolo rurale che abitava nei piccoli paesi della diocesi, tra loro distanti e poco accessibili.
Per questo profuse tutto il suo impegno a potenziare il Monte Frumentario per i poveri, dare ordine alla sua Chiesa, regolare la vita liturgica, disciplinare il clero. Per ovviare alla scarsezza di sacerdoti idonei al loro ministero, ampliò e potenziò in Cirò il Seminario diocesano dove i giovani potessero ricevere una formazione spirituale adeguata. Ma, scrive Mezzi “il suo appello ad una riforma personale rivolto al suo numeroso clero rimase in molti casi pio desiderio del vescovo. Soprattutto fonte di apprensione costante era il clero secolare col suo malcostume diffuso che persisteva tenacemente, nonostante le ammonizioni e le pene severe a volte comminate”. Altra preoccupazione per il Peronaci furono le popolazioni arbereshe, di origine albanese, che fin dalla metà del XV sec. si erano stanziati nei tre casali di San Nicola dell’Alto, Carfizzi e Pallagorio e molto restie alla latinizzazione del loro rito greco – ortodosso.
Ancora oggi la gente di Cirò e Cirò Marina ricorda con soddisfazione l’operato del vescovo di Umbriatico.
Nel 1732 ottenne la proclamazione di san Nicodemo a protettore della città e nel 1735 restaurò ex novo l’Episcopio di Cirò e “ da molte piccole case congiunte insieme si è ricavata un’unica struttura razionale con grande sforzo finanziario che ha preso la forma di un palazzo”.
Il palazzo episcopale cirotano, dove ormai da lunghissimo tempo soggiornavano i vescovi, era situato su corso Lilio di fronte alla chiesa di Santa Maria de Plateis; nel 1735 ampliò la sede del seminario diocesano che era affiancato all’Episcopio; nel 1753 in un podere della Mensa vescovile, chiamato Mandorleto, oggi in territorio di Cirò Marina, fece edificare un palazzo “prope mare” per la salute dei presuli; ridusse in coltura due fondi della Mensa, quello detto Salvogara e ’altro lo stesso Mandorleto “con sue case pe’ coloni e con giardini di agrumi”. Ad Umbriatico, poi, restaurò la cattedrale e il palazzo vescovile. Pur in tanto da farsi per il territorio diocesano, mai dimenticò la terra natia, Serra San Bruno, nella quale ogni estate vi rientrava. Vi fece costruire, a sue spese, la cappella in marmo del protettore di Serra San Biagio che il nipote Don Salvatore Peronaci Vicario generale della diocesi di Mileto ne mantenne il culto e la cura. Non solo. Cosa decisamente molto importante per i posteri e per gli approfondimenti sulla Certosa e l’Ordine cartusiano è stato il finanziamento per la stampa dei dieci volumi della storia certosina del vibonese P. Benedetto Tromby. Sentendosi ormai vicina la fine dei suoi giorni, in una lettera datata 11 settembre 1771 così scrive: “ Si accostano gli anni quaranta di mia incardinazione alla Chiesa di Umbriatico, in cui per mancanza di buon’aria sono nella dura necessità di fare ogni anno penosissimo viaggio di tre giorni nell’andare all’aria natìa nei mesi estivi e di quattro indi nel restituirmi alla residenza…al presente per la mia età decrepita e pe’ continui acciacchi di gotta, consumato di forze, mi vedo inabilitato a continuarlo…prego reverentemente Vs. Ill.ma a volersi benignare di farmi meritare…l’indulto della residenza per quel tempo che mi rimane di vita, che prevedo brevissimo”. Non fu esaudito in questo estremo e giusto desiderio e così, nel palazzo del Mandorleto, fece ritorno alla Casa del Padre il 5 febbraio 1775. Quindi i suoi resti mortali furono portati nella Cattedrale di Umbriatico dove riposano e lontano dalla sua amata Serra.