Insieme a ‘nduja e sardella occupano un posto molto nobile nella cucina non solo nostrana
“Quando io sono in viaggio, ho l’abitudine di girandolare nei mercati delle ortaglie e dei pesci delle città che vado visitando. È uno spettacolo che sempre fa piacere e che non manca di farmi apprendere qualche cosa sulla natura del paese, sugli usi e i costumi dei suoi abitanti. A Catanzaro io trovo con soddisfazione a fianco delle zucchine, di cui si fa un sì grande consumo in tutta Italia, e dei peperoni rossi e verdi, i ‘gombi’ o ‘bamie’, mie vecchie conoscenze di Grecia e Siria”. Così Francois Lenormant nel suo famosissimo “La Magna Graecia” durante il viaggio in Calabria del 1879. E Gorge Gissing, durante l’itinerario nella nostra regione del 1897 ben descritto nel suo “Sulla riva dello Jonio” chiarisce il posto che occupano il peperone e il peperoncino nella cucina dei calabresi. “Il pasto arrivò senza indugio. Prima portata un vassoio di grossi peperoni all’olio. Questo frutto sgargiante non mi è piaciuto troppo, ma finora non avevo mangiato peperoni come quelli di Squillace: dopo un’ora o due mi bruciava sempre la bocca per il fuoco di quei bocconi […] Poi venne un piatto che avevo ordinato io, la sola pietanza che i padroni potessero preparare alla svelta, stufato di maiale con patate. Il maiale è la carne più in uso in questa regione. Considerandolo una dieta omerica, spesso mi sono rimpinzato di questa carne con una modesta soddisfazione”. Insomma i viaggiatori del Gran Tour del ‘700-800 che si imbattono nelle nostre contrade si convincono di trovarsi davanti ad una cucina arcaica, forte e non facilmente tollerabile, spesso immangiabile e disgustosa. Non è così per i calabresi di ogni ceto sociale e sono in molti che ne cantano e descrivono le virtù. Prendiamo, tra i tanti, Mastru Brunu Pelaggi, l’ormai famoso e letto poeta scalpellino di Serra San Bruno nella lirica “A sé stesso”: “…“Nci piacianu li vruoccula / e li pastiddi cotti / e, ancora alla vicchiaia / ‘nci piacianu li buotti.// …Li pipirieddi, puoi, ‘nci/ piacianu abbruscenti,/ no chiddi tabarani/ chi non dicianu nenti,// e mancu chiddi grossi/ tritrola simintusi/ c’assumigghianu all’omini/ stupidi e prisintusi.”
Il poeta della Città della Certosa individua e propone come elementi costitutivi della sua personalità, preferenze e rifiuti alimentari, in particolare la predilezione per il peperone piccante e il disprezzo per i peperoni grossi e senza sapore. E non solo. La letteratura calabrese tutta associa il peperoncino alla forza e alla bellezza degli uomini e delle donne. Nel periodo storico di Mastru Brunu amante di “lu pipi abbruscenti”, della giustizia sociale e delle donne, una ricerca di folclore evidenziava le virtù terapeutiche, stimolanti ed eccitanti, del pepe ed il largo impiego fino all’abuso che ne facevano i ceti popolari e nell’alimentazione e nella medicina. Il peperoncino rosso è ritenuto un rinfrescante ma la qualcosa spesso ha generato fraintendimenti. Nel corso degli anni, poi, il nostro sovrano peperoncino è diventato bene di lusso a buon mercato, per ricchi e poveri, e sempre disponibile per tutti quelli che avevano difficoltà economiche per fruire dell’olio di oliva, del burro e del grasso di maiale. L’unico neo è che il prelibato frutto della terra del sole veniva esageratamente utilizzato in medicina. A fine ‘800 il medico vibonese F. I. Pignatari scriveva che “il popolo calabrese, fin dai tempi più remoti, ebbe il pepe per medicina comune e precedette di secoli le ricerche dei clinici. È tuttavia una medicina del popolo molto in onore, ma spesso bestialmente e biasevolmente adoperata. È noto che le ostinate, le annose e refrattarie febbri malariche[…] venivano scongiurate dall’abuso, anzi dalle scorpacciate di pepe brucente contornate da libazioni sulla, addirittura, scottante pietanza.” E però, chiarisce il medico “è parimenti noto che spesso non si riesce a nulla, o che, debellata la prima volta la malattia, invano si tenta, ricadendo, di vincerla”. Al postutto, non si può sottacere che il peperoncino costituiva l’elemento caratterizzante un’identità affermatasi e consolidatasi nel corso di una lunga epoca segnata da miseria, malaria, malattie, elevato tasso di mortalità derivata da carenze dei fondamentali principi nutrivi. Oggi è tutta un’altra storia! Il peperoncino e gli associati ‘nduja e sardella occupano un posto molto nobile nella cucina non solo calabrese.