“siamo la vergogna dei governi…la croce sulla croce, diceva l’arciprete. E una croce sulla croce segnavano le donne”
Franco Costabile (Sambiase, oggi Lamezia Terme 1924 – Roma 1965). I versi che seguono sono l’interpretazione completa e spietata del panorama della fame, della fame di tutti i Calabresi negli anni ’50 ed oltre ed oggi. Ieri come oggi. È lirica alta, sublime seppur nell’angoscia e nella ribellione che, come scrive P. Crupi, “diventa il massimo della condanna che è pronunciata contro chi governa”. Ieri come oggi!
Il canto dei nuovi emigranti
Ce ne andiamo.
Ce ne andiamo via.
Dal torrente Aron
dalla pianura di Sieri.
Ce ne andiamo
con dieci centimetri
di terra secca sotto le scarpe
con le mani dure con rabbia
con niente.
Vigna vigna
fiumare fiumare
doppiando Capo Schiavonea.
Ce ne andiamo
dai campi d’erba
tra il grido
delle quaglie e i bastoni.
Dai fichi più maledetti
a limite
con l’autunno e con l’Italia.
Dai paesi
più vecchi più stanchi
in cima
al levante delle disgrazie.
Cropani
Longobucco
Cerchiara Polistena
Diamante
Nào
Jonadi Cessaniti
Mammola
Filandari.
Tufi
calcarei
immobili
massi eterni
sotto pena di scomunica.
Ce ne andiamo
rompendo Petrace
con l’ultima dinamite.
Senza
sentir più
il nome Calabria
il nome disperazione.
Troppo tempo
siamo stati nei monti
con un trombone fra le gambe.
Adesso
ce ne andiamo
muti per le scorciatoie.
Da Confluenti
dalle Pietre Nere di Ardore.
Dal sole di Cutro
pazzo sulla pianura
dalla sua notte, brace di uccelli.
Troppo tempo
a gridarci nella bettola
il sette di spade
a buttare il re e l’asso.
Troppo tempo
a raccontarci storie
chiamando onore una coltellata
e disgrazia non avere padrone.
Troppo
troppo tempo
a restarcene zitti
quando bisognava parlare, basta.
Noi
vivi
e battezzati
dannati.
Noi
violenti
sanguinari
con l’accetta conficcata
nella scorza
dei mesi degli anni.
Noi morti
ce ne andiamo
in piedi
sulla carretta.
Avanzano le ruote
cantano i sonagli verso i confini.
Via!
Via
dai feudi
dagli stivali dei cani
dai larghi mantelli.
Ussahè.
Via, via!
Via dai baroni.
I Lucifero
i Conti Capialbi
i Sòlima o gli Spada
i Ruffo i Gallucci.
Usciamo
dai bassi terranei
dal sudario
dei loro tappeti
dai palmenti
della vendemmia
profondi
a lume di candela
e senza respirazione.
Via
dai Pretori
dalla Polizia
dagli uomini d’onore.
Non chiamateci.
Non richiamateci.
È scritto
nel comprensorio.
È scritto
nei fossi nei canali.
È scritto
in centomila rettangoli
alto su due pali
Cassa del Mezzogiorno
ma io non so che cosa
si stia costruendo
se la notte o il giorno.
Ci sono raffiche
su vecchie facciate
che nessuno leva: l’occhio
del Mitra è più preciso
del filo a piombo della Rinascita.
Addio, terra.
Terra mia
lunga
silenziosa.
Un nome
non lo ebbe
la gioventù.
Non stanchiamoci adesso
che ci chiamano col proprio cognome.
Noi, noi
ce ne siamo
già andati.
Dai catoi
dagli sterchi orizzonti.
Da Seminara
dalle civette di Cropalati.
Dai figli
appena nati
inchiodati nella madia
calati
dalle frane
dall’Aspromonte
dei nostri pensieri.
Spegnete
le lampadine della piazza.
Scordiamoci
delle scappellate
dei sorrisi
dei nomi segnati
e pronunciati per trentasei ore.
Cassiani
Cassiani
Cassiani
Cassiani
Foderaro
Galati
Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi
Cassiani
Cassiani.
La croce
sulla croce,
diceva l’arciprete.
E una croce
sulla croce
segnavano le donne.
Andavano e venivano.
Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi.
È stato
sempre silenzio.
Silenzio
duro
della Sila
delle sue nevicate a lutto.
È stato
il pane a credenza
portato
sotto lo scialle
all’altezza del cuore.
Sono stati
i nostri occhi stanchi
guardando
le finestre illuminate
della prefettura.
Carabinieri fermatevi.
Guardate, giratevi
non c’è nemmeno un cane.
Siamo tutti lontani
latitanti.
Fermatevi.
Restano gli zapponi
dietro la porta,
i cieli
i vigneti.
La pietra
di sale sulla tavola.
I vecchi
che non si muovono
dalla sedia, soli
con la peronospora nei polmoni.
Le capre
la voce lunga
degli ultimi maiali scannati.
L’argento
a forma di cuore, nelle chiese.
Le ragnatele
dietro i vetri, le Madonne.
La ragnatela del Carmine
la ragnatela di Portosalvo
la ragnatela della Quercia.
Restano le donne
consumate da nove a nove mesi
con le macchie
della denutrizione
della fame.
Le addolorate
la pietà di tutti gli ulivi.
Lavando
rattoppando
cucinando su due mattoni
raccogliendo
spine e cicoria.
Cancellateci
dall’esattoria.
Dai municipi
dai registri
dai calamai della nascita.
Levateci.
Scioglieteci
dai limoni
dai salti
del pescespada.
Allontanateci
da Palmi e da Gioia.
Noi vivi
noi morti
presi e impiccati
cento volte
ce ne siamo già andati
staccandoci dai rami,
dai manifesti della Repubblica.
Di notte
come lupi
come contrabbandieri
come ladri.
Senza un’idea dei giorni
delle ciminiere degli altiforni.
Siamo in 700 mila
su appena due milioni.
Siamo
i marciapiedi
più affollati.
Siamo
i treni più lunghi.
Siamo le braccia
le unghie d’Europa.
Il sudore Diesel.
Siamo
il disonore
la vergogna dei governi
Il tronco
di quercia bruciata
il monumento al Minatore ignoto.
Siamo
l’odore di cipolla
che rinnova
le viscere d’Europa.
Siamo un’altra volta
la fantasia
il 1° giorno di scuola
senza matita
senza quaderno
senza la camicia nuova.
Toglieteci
dalle galere.
Non ubriacateci.
Liberateci
dai coltelli di Gizzeria
dal sangue dei portoni.
Non chiamateci
da Scilla
con la leggenda
del sole
del cielo
e del mare.
Siamo bene legati
a una vita
a una catena di montaggio
degli dei.
Milioni di macchine
escono targate Magna Grecia.
Noi siamo
le giacche appese
nelle baracche nei pollai d’Europa.
Addio, terra.
Salutiamoci, è ora.