“sulu fatiga mu mi ruppu l’ossa…duvi ncappamma nui, povera genti!
E mo chi cazzu mi priedicati pro Calabria?
Mastru Brunu Pelaggi (Serra San Bruno 1837 – 1912) si può considerare, come molti lo fanno, il precursore della mai risolta “questione meridionale”. Parlare e scrivere di Mastro Bruno, infatti, è di una forte e sconcertante attualità a dispetto del tanto tempo che ci divide. I temi della sua poetica spicciola e senza pretese linguistiche o sintattiche e tantomeno metriche (scalpellino da mattina a anni molti eminenti rappresentanti della letteratura italiana si sono interessati della figura e della poesia dello scalpellino serrese. Tra i tanti, cito Angela Ambrosoli che scrive: “… son passati in silenzio, fino a qualche decennio addietro sconosciuti agli stessi Calabresi, Autori dialettali di grande vigore, interpreti genuini dell’indole e delle civiltà della regione, ma non per questo indegni di essere annoverati in una storia della letteratura italiana. Valga come esempio Mastru Brunu, semplice scalpellino ma voce dialettale di forte protesta sociale che ora si rivolge a Dio, ora alla luna, ora alla Vergine per raccontare le sue condizioni di miseria, comuni a un vasto sottoproletariarato, per stigmatizzare i mali e le ingiustizie, l’eterna infelicità che in molti versi ha accenti leopardiani.” E Umberto Bosco scrive: “…Mastro Bruno non arretra dinanzi a parole energiche ma nel suo testo…esse hanno perduto il loro originario valore greve, talvolta sono intercalari…Tuttavia l’aspetto più interessante di Mastro Bruno non ci è dato da versi di questo genere, ma da altri di diverso tono, come quelli nei quali denuncia la necessità in cui i poveri si trovano a votare secondo la volontà di coloro ai quali “si dici no pierdi lu pani.” Recentemente è stato, finalmente e meritatamente, inserito nello storico e prestigioso Dizionario Encicolpedico della Treccani. Vi sta scritto, secondo il curatore prof. Gabriele Scalessa, che “come la coeva letteratura calabrese in dialetto anche la poesia di Pelaggi risentì degli accadimenti che riguardarono il Meridione. È infatti sulla consapevolezza del ritardo di questo rispetto al resto del Paese che Mastru Brunu scrisse alcuni fra i suoi componimenti più celebri, inseguendo un’idea di letteratura che, scevra da preoccupazioni estetiche e votata piuttosto all’impegno politico-sociale, lo rese una delle voci più significative della poesia in dialetto calabrese fra i due secoli.” Ed ancora. “Pur non poggiando su una piena coscienza storica, è però nella poesia di Pelaggi quello sdegno per l’ingiustizia insita nelle disuguaglianze sociali, vagamente intuita come riconducibile al processo di unificazione.”sera senza voler essere o apparire “poeta” ma semplicemente raccontare a sé stesso e al suo vicinato le “stuori”, come amava definire i suoi componimenti) sono la disperazione, la fame, la povertà, l’inquietudine della povera gente che resta sempre e comunque classe subalterna. In questi ultimi.
Canto disperato | Ad Umberto I° re d’Italia |
A cu’ tanti dinari nci mandasti |
Di sup’a sta’ muntagna ch’è truoppu tirannia A nuiatri ndi tocca Ma tu ti ndi strafutti Non spirari cchiù nenti di Dio e di lu guviernu e sulu si chiamata Jio mo’ parru cu’ bui, Cca mai si vida l’arva Sempi ndi cugghiunija e mbeci cchiù gravàti |