IL DIAVOLO E L’ACQUASANTA
« Una volta chiusi gli occhi, caro mio, non esisterà più niente! E finiamola con tutte queste teorie che la chiesa ti ha messo in testa, io credo a quello che vedo! Questo pezzo di legno per me esiste perché posso toccarlo, lo metto nel fuoco e fa calore! Se te lo do in testa, fa male! A questo credo! » « Ma no Bruno, no! Questo pezzo di legno viene da un albero, l’albero chi l’ha creato se non Dio?!?! » I due amici che si erano riuniti come al solito dopo il lavoro nella piccola falegnameria nel centro del paese a bere un bicchiere di vino e assaporare castagne arrostite. Bruno era un ateo convinto, materialista, qualcuno lo avrebbe definito Marxista se solo quella parola fosse approdata nel linguaggio popolare della Calabria dei primi anni del ventesimo secolo, mentre Domenico, cresciuto all’ombra della chiesa e fervente cattolico, sosteneva esattamente il contrario: Dio esisteva eccome! così come esistevano Inferno, Purgatorio e Paradiso e ognuno di noi un giorno avrebbe reso conto del suo operato terreno e sarebbe stato punito o premiato! Si, anche Bruno, che faceva tanto il gradasso! La discussione finiva quasi sempre con il tono della voce alto, ognuno difendeva le sue idee. La diatriba continuava da anni, iniziata probabilmente quando frequentavano entrambi l’oratorio, Domenico da bravo chierichetto e Bruno da piccolo furfante che mangiava di nascosto le ostie dietro il sagrato per attenuare la fame nera. Erano stati affidati dai genitori alle maestranze per imparare un mestiere, Bruno muratore e Domenico falegname e ora, da adulti, erano diventati entrambi due bravi e rispettabili artigiani, che avevano messo su famiglia e non avevano mai smesso di frequentarsi nonostante le diversità di vedute e stili di vita differenti: sobria quella di Domenico, improntata sulle regole cristiane e più godereccia quella di Bruno. « E facciamo una cosa…» – disse Bruno per avere l’ultima parola – «Tanto prima o poi dobbiamo morire! Chi dei due morirà per primo avviserà l’altro se esiste o no l’aldilà! » e ridendo strinse la mano all’amico per far finire così la discussione, almeno per quel giorno. Le giornate passarono lente, i mesi e così gli anni. Videro i figli e i nipoti crescere e il legame di amicizia non cessò mai di esistere. S’incontravano ancora alla soglia dei settant’anni, quasi ogni sera, sempre nella bottega di Domenico, ormai diventata un luogo simbolo del paese, che si era vista crescere intorno i primi caseggiati moderni a due piani e dinnanzi all’entrata il primo bitume, che aveva preso il posto dei vecchi ciottoli di fiume con cui erano anticamente lastricate le vie. Fu in un’alba di aprile che Annina bussò alla porta: « Mastro Domenico… mio padre è morto » – disse – « Siccome eravate come fratelli, ci tenevo a dirvelo prima che chiunque altro lo sapesse. Avremmo bisogno del vostro aiuto, non sappiamo come organizzarci per il funerale, come sapete mio padre non era un frequentatore della chiesa e delle congreghe, e non ci ha mai istruiti su cosa fare in questi casi…». Il primo tonfo in casa fu avvertito intorno alla mezzanotte dalla moglie di Domenico, fu come un rumore di un mobile caduto in solaio, controllarono che tutto fosse a posto e non trovando niente di anomalo tornarono a dormire. Il secondo intorno alle due, questa volta sentito solo da Domenico, che fece un giro di perlustrazione per capire da dove provenisse il rumore, ma neanche questa volta trovò risposte. Il terzo fece riversare tutta la famiglia in strada, poiché fu come una scossa di terremoto, ma nella via nessun altro si era allarmato, si ritrovarono soli nel pieno della notte davanti l’uscio di casa. Un triste sorriso e una lacrima decorarono il viso di Domenico: Bruno, la notte in cui era morto, non aveva dimenticato la promessa fatta all’amico. « Vi aiuterò io… » disse, asciugandosi gli occhi.