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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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immigrati italiani americaSu internet, già da qualche anno e su vari siti, ufficiali e non, gira quella che viene definita “Relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione al Congresso Americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti”, datata ottobre 1912, che cito testualmente: <<Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. Si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione. >>
Facendo una ricerca più approfondita, scopro essere una bufala. Che sia vera o no di certo queste parola fanno pensare, anzi ripensare a quando gli immigrati eravamo noi. Noi quelli che scappavano dalla miseria, noi quelli che si imbarcavano per giorni e giorni su navi della speranza, la speranza di poter cambiar vita, noi quelli bloccati nei “centri di accoglienza” ai piedi della Statua della Libertà. Noi quelli considerati “tutti mafiosi”, noi i diversi perché di carnagione scura, ma non troppo. Il pregiudizio a cui i nostri antenati sono stati sottoposti dovrebbe farci riflettere: bambini considerati dagli insegnanti meno intelligenti e inseriti in classi ghetto, ragazzi obbligati a fare i lavori più umili, quelli che i nativi americani non volevano più fare, migliaia di persone obbligati a non parlare l’Italiano. Un poster diffuso negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale recitava così: "Don't Speak the Enemy's Language! Speak American!". Per questo agli italiani conveniva imparare presto la nuova lingua e assimilare rapidamente la nuova cultura; conveniva dimenticare l'italiano, non insegnarlo ai propri figli. Conveniva "americanizzarsi", mimetizzarsi il più presto ed il più efficacemente possibile per evitare il pregiudizio, conveniva perdere le proprie tradizioni. E’ bastata una bufala per farmi fare una ricerca più approfondita su quando gli immigrati eravamo noi, per ricordare come venivamo trattati e per capire quanto è difficile sentirsi stranieri. Eppure oggi le cose sono molto cambiate e gli italiani negli Stati Uniti sono addirittura per molti versi ammirati. Oggi l'emigrazione dall'Italia verso gli Stati Uniti e' piuttosto un'emigrazione intellettuale, ma quanta fatica. Noi il nostro riscatto lo abbiamo avuto, adesso tocca a noi scegliere da che parte stare.

brigantaggio
Il periodo intercorso tra l’anno 1806 e l’anno 1812 fu ricordato dai nostri antenati come “l’epoca dei briganti”. Sono stati per i serresi sei anni terribili, forse i più terribili e sanguinosi della loro storia. Regnava all’epoca il re Ferdinando IV dei Borboni, che successivamente prese il nome di Ferdinando I. Questo coraggiosissimo re nel 1806 alla discesa dei Francesi in Italia, per salvare la pellaccia, pensò bene di fuggire e rifugiarsi in Sicilia, lasciando la nazione nelle mani dei sanguinari soldati francesi. L’invasione degli stranieri dette origine al fenomeno del brigantaggio per il fatto che molte persone, dichiarandosi seguaci del re (realisti), si dettero alla macchia nelle montagne e da lì cominciarono a compiere ogni genere di ruberia. Anche Serra ebbe i suoi briganti, agevolati forse più degli altri realisti, avendo dalla loro il vantaggio di potersi nascondere tra gli anfratti delle vicine montagne.
I Francesi, per controllare bene il territorio, stabilirono il loro quartiere generale nella città di Monteleone (oggi Vibo Valentia), dislocando a Serra una loro guarnigione a cui affidarono il compito di scovare e distruggere i briganti. Non pochi furono le crudeltà e i massacri messi in atto dai soldati francesi che occuparono Serra come, allo stesso modo, non pochi furono i delitti e i soprusi compiuti ai danni della povera gente da parte dei briganti. Insomma, all’epoca, se un poveruomo riusciva a schivare le angherie dei Francesi, non riusciva certo a schivare quelle dei briganti. A rimetterci l’osso del collo erano sempre le persone oneste le quali non sapevano quale partito prendere. In pratica, se patteggiavano con i Francesi, incorrevano nelle vendette dei briganti e, se patteggiavano con i briganti, incorrevano nelle vendette dei Francesi. Sta di fatto che né i soldati francesi, né i briganti erano ben visti dalla popolazione la quale stentava a sbarcare il lunario e, in quei tristi e oscuri tempi, aveva ben altre preoccupazioni a cui pensare. Per questo motivo, quando capitava l’occasione, i serresi non esitavano a lanciare il sasso e nascondere la mano, vale a dire a colpire cercando di farla franca.
Fu così che un giorno a qualche cittadino serrese capitò l’occasione buona di tirare un colpo di schioppo senza essere visto all’indirizzo di un soldato francese nel tentativo di stenderlo per sempre al suolo e vendicare qualche atto di violenza subito dagli arroganti occupatori. Il fatto successe nello spiazzo antistante la Chiesa Matrice dove un giorno si trovò a transitare il maresciallo Berton, capo della gendarmeria francese, a cavallo della sua fidatissima giumenta. Il colpo di fucile partì “da dietro quel vicolo posto a sinistra della chiesa matrice” ad opera di uno sconosciuto che, dopo aver premuto il grilletto, ebbe tutto il tempo di fuggire senza essere né visto né catturato.
La storia narra che forse per l’emozione o forse per la fretta di fuggire l’attentatore non prese bene la mira e il colpo attinse mortalmente la povera giumenta, lasciando del tutto illeso l’arrogante maresciallo che la cavalcava. La bestia morì nel giro di qualche ora ed ebbe tutto il tempo di ascoltare le parolacce e le imprecazioni del maresciallo Berton il quale, impugnata subito la pistola d’ordinanza, si diede all’inseguimento dello sconosciuto sparatore senza riuscire, però, ad identificarlo e ad acciuffarlo. A pagare le spese di tutto questo fu lo scemo del villaggio, un certo Paolo di Magnifica, che col fatto dell’uccisione della giumenta del maresciallo non centrava proprio niente. Essendo scemo, Paolo di Magnifica non si rendeva conto che alcune cose non le doveva fare soprattutto quando i francesi non volevano. La colpa di quel poveretto è stata quella di essersi messo a suonare le campane della chiesa matrice quando vide entrare in Serra un gruppo di soldati francesi. Per farlo smettere, memore dell’affronto subito qualche giorno prima dal maresciallo Berton, un soldato gli sparò contro alcuni colpi di fucile senza però centrarlo. Il poveretto, invece di nascondersi e fuggire, dopo aver finito di suonare le campane, scese dal campanile e si fece vedere in piazza. Questa volta però, il soldato francese non sbagliò la mira e lo colpì in pieno uccidendolo all’istante. La perdita di una giumenta fu, così, vendicata con l’uccisione di un essere umano che, tutto sommato, non aveva fatto male a nessuno, ma si era soltanto divertito a suonare una campana

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