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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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chiesa spinetto art gambino
Ogni tanto o quasi sempre, io ritorno indietro, indietro nel tempo e la memoria mi porta alla mia fanciullezza e, fra le tante vicende passate, si può dire che io rivivo alcuni episodi tra cui quelli relativi alle “battaglie” tra Terravicchiari e Spinittari. Già, proprio cosi.
Come ormai è saputo e risaputo, l’abitato di Serra San Bruno era situato solamente nella zona che ora chiamiamo Terravecchia. Spinetto non esisteva. Nel 1783 una fortissima scossa di terremoto distrusse case, strade, chiese . Si è tentato inizialmente di ricostruire il paese, ma non è stata opera facile per tanti motivi. Piano, piano qualcuno ha trasferito il proprio domicilio costruendo qualche baracca in legno nell’ampia pianura piena di rovi e spine (spineto) oltre l’Ancinale verso la Certosa. Un dei problemi principali era anche l’impossibilità di poter fare le funzioni religiose dato che le due chiese (Addolorata e Matrice) erano impraticabili. Alcuni, quindi, hanno pensato di costruire con tavole di legname una provvisoria chiesa matrice nella nuova area. Così fu fatto e tutte le funzioni religiose, alla guida del sacerdote don Vincenzo Giancotti. Con il passare del tempo. L’afflusso dei fedeli verso questa chiesa è diventato enorme, tanto che alcuni serresi, non potendo ricostruire la propria abitazione nella terra vecchia, ha voluto fare tutto nella pianura oltre l’Ancinale: così fu e così sorse lu Spiniettu .
Tutto questo ,però, ha comportato un contrasto netto tra coloro che volevano l’espletamento di tutte le funzioni religiose nella vecchia chiesa Matrice e quelli che sostenevano che ormai la nuova chiesa doveva essere e rimanere di Spinetto. Così nacque la rivalità tra le due zone di Serra. nel tempo ci sono stati litigi, risse che portarono anche lutti nelle famiglie, dato che alcuni per sostenere la loro tesi si recavano arriedu lu Palumbu (oggi alle spalle di la chiesuledha ) si sfidavano a duello con coltelli o altre armi.
Non voglio andare avanti per raccontare altri episodi cruenti di litigi e rivalità già descritti da mio fratello Sharo nella sua opera “Sull’Ancinale). Io voglio ricordare che tale rivalità tra Terravecchiari e Spinettari è durata fino agli 50 , se non oltre. Ai tempi mie, per noi bambini o ragazzi, oltrepassare il ponte dell’Ancinale era un problema: era quasi sempre una lotta tra quelli di Spinetto e quelli di terra vecchia. Ci sfidavamo noi terravecchiari da una sponda e spinettari dall’altra scagliandoci sassi o altra roba. Più di una volta qualcuno di noi è ritornato a casa con la testa macchiata di sangue. Come si sa, in tempo l’unico edificio scolastico era a Terravecchia. Le aule erano piene di bambini dei due rioni. Anche in classe ci stuzzicavamo e ci sentivamo nemici. Ricordo che all’uscita (allora non venivano i genitori a prelevarci) le liti non mancavano e accompagnavamo i nostri “nemici” fino al ponte. Arrivati là, facevamo subito marcia indietro, perché li Spinittari diventavano subito i padroni della zona e guai per noi Terravicchiari a varcare il loro confine.
Chiudo con altri particolari. Non so se qualcuno ricorda la fontana pubblica che si trovava nel piazzale di fronte alla chiesa di Spinetto (vedi foto ricostruita dietro miei indicazioni dal grande artista Vitantonio Tassone). Era un capolavoro. Un corridoio di circa cinque metri chiuso lateralmente da grosse lastre di granito. All’interno, attaccate a queste lastre c’erano altre lastre di granito che formavano i sedili. Alla cima del corrodoio era posizionato un fascio littorio dalla cui falce scorreva acqua potabile. Questa era la fontana della chiesa di Spinetto. Là io e i miei compagni di gita, ci fermavamo il giorno di la Pinticosta al ritorno dal bosco di Santa Maria, per rinfrescarci e assaporare quell’acqua ristoratrice. Ebbene, qualche volta anche là noi Terravicchiari abbiamo avuto qualche litigio con i nostri “nemici” Spinittari La fontana è stata distrutta dagli antifascisti serresi nel 1944 quando ormai il Fascismo finì di governare l’Italia.

Il Vino di Cirò tra storia e leggenda

Si narra che, in origine, la vite, che oggi noi tutti conosciamo per il dolce nettare prodotto dai suoi frutti, fosse in realtà una semplice pianta ornamentale, che non produceva né fiori né frutti. Vista la sua assoluta inutilità, un bel giorno, un contadino calabrese in piena stagione primaverile, temendo che potesse fare ombra ai seminati, decise di tagliarla o quanto meno di ridurla il più possibile. La pianta venne così potata al punto che di essa rimasero solo dei piccoli rami nudi. La vite, vedendosi così mal ridotta, proruppe in un pianto così intenso che un usignolo, udendola, ebbe pietà di lei:
«Non piangere» le disse «io canterò per te, e le stelle si muoveranno a compassione».
L'uccello, così dicendo, volò e si posò sui poveri rami tronchi della vite, da dove, all'imbrunire, cominciò ad intonare un canto con tanta dolcezza e tanta soave melodia che la vite stessa ne rimase ammaliata, quasi dimenticando i propri malanni.
L'usignolo cantò e cantò per dieci notti ininterrottamente e le sue note melodiose vibrarono nell'aria fino a raggiungere le stelle, le quali, di fronte a quello spettacolo, si commossero a tal punto da decidere di trasferire un po' della loro forza celestiale a quella povera pianta mutilata. La vite sentì subito scorrere dentro di sé una nuova linfa; i suoi nodi si gonfiarono, le sue gemme cominciarono a sbocciare. I primi pàmpini verdi fremettero alla brezza dell'aurora, e tenui riccioli verdi, i viticci, cominciarono ad allungarsi, finendo per avvolgersi, come una delicata carezza, intorno alle zampine dell'uccellino.
Quando gli acini del primo grappolo cominciarono a dorarsi alla luce dell'alba, l'usignolo volò via contento e felice. La vite, da mera pianta ornamentale, si era magicamente trasformata in una sontuosa pianta fruttifera. Il suo frutto non era un frutto qualsiasi, ma possedeva qualità divine come la forza delle stelle, la dolcezza del canto dell'usignolo e la luminosa letizia delle notti estive.
Passando ora dalla legenda alla realtà, l'origine storica del vino Cirò viene invece collocata intorno all'VIII secolo a.C. quando alcuni coloni greci approdarono sul litorale di Punta Alice, dove fondarono Krimisa, più o meno dove oggi sorge Cirò Marina.
Il nome “Krimisa” deriva infatti da quello della colonia greca stanziata sul promontorio di Cremissa, dove sorgeva un importante tempio dedicato a Bacco, dio del vino.
Secondo alcuni racconti mitici al riguardo, l'eroe greco Filottete, reduce dalla guerra di Troia (che figura nel II canto dell'Iliade), era giunto in questi luoghi esule da Melibea, con dei Rodii guidati da Tlepolemo e vi aveva fondato le città di Krimissa, Petelia, Macalla e Chone.

I coloni greci appena sbarcarono sulle coste Calabresi, rimasero talmente impressionati della fertilita' di questi vigneti che diedero loro il nome di "Enotria", "terra dove si coltiva la vite alta da terra", e gli attribuirono un valore tale per cui un appezzamento di terra coltivata a vite valeva per sei volte un campo di cereali.

Crotone e Sibari furono le prime due città calabresi che si cimentarono nella produzione del "Krimisa" antenato dell'attuale Ciro'. Sembra addirittura che a Sibari, in particolare, vennero costruiti degli "enodotti", con tubi in terra cotta, capaci di trasportare il vino dalle colline di Sibari fino al porto, dove veniva poi direttamente imbarcato, abbreviando così tutte le operazioni di trasporto.

Il "Krimisa" divenne il vino ufficiale dell'Olimpiade e probabilmente è stato il primo esempio di sponsor secondo l'attuale definizione; veniva offerto agli atleti che tornavano vincitori dalle gare olimpiche e lo stesso Milone di Crotone, vincitore di ben sei olimpiadi, ne era un grande estimatore.

Nel 1968 alle Olimpiade di Città del Messico, per rinnovare la tradizione, tutti gli atleti partecipanti hanno avuto la possibilità di gustare il Cirò come vino ufficiale della kermesse.

Il Vino Cirò ha, effettivamente, sempre goduto fama di essere un prodotto dotato di virtù terapeutiche. Secondo autorevoli pareri di rilievo medico, il Cirò addirittura era considerato un "sicuro cordiale per chi volesse recuperare le forze dopo una lunga malattia" ed inoltre un "tonico opulento e maestoso per la vecchiaia umana che volesse coronarsi di verde ancora per anni".

Si presume che il gaglioppo, il mantonico ed il greco bianco siano alcune delle viti, ancora presenti sul suolo calabrese, di origine greca.

Oggi il vino Ciro', prodotto apprezzato per le sue grandi qualità, viene esportato in tutto il mondo. In particolare il Cirò rosso, con una gradazione di 13,5 gradi, puo' addirittura portare la qualifica di "Riserva".

 

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